I film d’animazione Disney hanno ritratto in quasi un secolo moltissimi luoghi del mondo. E il quadro dipinto dal regista Lee Unkrich nel film Coco rappresenta perfettamente il Messico durante “el dia de los muertos“.
Quarta co-produzione Disney-Pixar dopo Toy Story 2, Monsters & Co., Alla ricerca di Nemo e Toy Story 3, la pellicola fu distribuita nel 2017, e a rendere possibile la fedele rappresentazione del folklore messicano fu lo sceneggiatore Adrian Molina, che grazie al suo fondamentale contributo arrivò a ricoprire anche il ruolo di co-regista.
Il risultato del lavoro della troupe fu un prodotto che, grazie anche alle luci e ai colori, riuscì a riprendere perfettamente le atmosfere della festività messicana dedicata al culto dei defunti, pur facendo ovviamente i conti con pubblico composto in maggioranza da bambini. Gli addetti ai lavori, infatti, visitarono più e più volte il Messico, parlando con molte famiglie e studiando molte “haciendas” (le piccole industrie a gestione famigliare che sono osservabili anche nella pellicola).
Presentato in anteprima a Morelia, città situata al centro del Paese latino-americano, e distribuito nelle sale la settimana prima dell’inizio della festività, Coco è diventato il sedicesimo miglior film animato della storia a livello d’incassi ed è stato premiato con ben due Oscar: uno per il miglior film d’animazione (il secondo per Unkrich dopo Toy Story 3) e uno per la miglior canzone, Ricordami, che vinse anche un BAFTA Award, un Annie e un Golden Globe.
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Un mariachi sotto i riflettori
Miguel Rivera è il più giovane di una famiglia di calzolai e sogna di diventare un musicista affermato come il suo idolo Ernesto de la Cruz. Durante el dia de los muertos, annuncia ai propri parenti (tra cui la bisnonna Coco) di voler partecipare a una gara musicale che si terrà nella loro città durante i festeggiamenti. Spinta dall’odio che la famiglia nutre verso i musicisti dopo che il padre della bisnonna, anch’egli suonatore, l’ha abbandonata in cerca di gloria, la nonna Elena distrugge la chitarra del ragazzo.
Poco prima, Miguel aveva riconosciuto la chitarra del proprio idolo in una foto di famiglia. Questo lo porta a credere a una possibile parentela e che quindi possa prendere la chitarra “in eredità”. Dopo essere sgattaiolato nella tomba di de la Cruz, Miguel non resiste e prova subito lo strumento, ma si rende conto di aver commesso un grave errore. Finito per magia nella Terra dei Morti, Miguel conosce i suoi defunti parenti. Questi lo avvertono: se non riuscirà a tornare nel regno dei vivi entro l’alba, rimarrà prigioniero di quel mondo.
Mamà Imelda, madre di Coco, si offre di dargli la benedizione necessaria per tornare a casa, ma alla condizione che non suoni mai più. Miguel accetta, ma infrange subito la promessa e ritorna nell’aldilà, dove se la dà a gambe. Lungo la strada per tornare a casa, incontra lo spirito di Hector, un musicista che in vita ha avuto ben poca fortuna, e insieme intraprendono uno straordinario viaggio per svelare la vera storia della famiglia Rivera.
All’inizio il progetto, anziché Coco, doveva chiamarsi El dia de los muertos: il protagonista sarebbe dovuto essere un bambino statunitense alla prima visita nel Paese materno. Secondo Molina, infatti, molti giovani ispanici che crescono in America cercano di omologarsi, fino a quando sentono il bisogno tornare alle proprie radici. Alla fine, tuttavia, la produzione decise di ambientare il film unicamente in Messico e di mostrare una situazione familiare conflittuale calandola nel contesto di una cittadina alle prese con l’importante festività.
Ecco che quindi Coco si diverte a mostrare alcune situazioni di vita quotidiana nel “Paese dov’è sempre primavera”, tra cui la disputa sull’uso della locuzione “el dia de los muertos” piuttosto che “el dia de muertos“. Polemica che a noi italiani può ricordare quella tra “arancino” e “arancina” e da cui i creatori del film hanno scelto di tirarsi fuori, usando entrambe le forme senza distinzioni nella versione spagnola.
Il culto della vita e della morte
“Il culto della vita, se davvero è profondo e totale, è anche il culto della morte. Sono inseparabili. Una civiltà che nega la morte finisce per negare anche la vita.” Questa citazione del poeta e diplomatico Octavio Paz spiega in modo semplice ma diretto il significato esistenziale, quasi esoterico, che realmente si cela dietro a quella che non è solo una festa, ma una vera e propria celebrazione della morte.
Durante el dia de los muertos i nonni possono conoscere i nipoti che non hanno mai avuto il piacere di stringere in braccio, i mariti defunti tornano al fianco delle mogli rimaste vedove e chi se n’è andato prematuramente può tornare a ballare su questa Terra. Non sono i morti che escono dalle proprie tombe. Sono i vivi a scavare tanto a fondo da farli riaffiorare.
Come prevedibile le origini della festività risalgono agli Aztechi, per i quali la morte era parte centrale del credo. Una leggenda sostiene che il dio Quetzalcoatl, il “serpente piumato”, scese nel Regno dei Morti e lavorò un cumulo di ossa per dare vita alla razza umana. Nell’antichità quindi le ossa rappresentavano il seme della vita. La data della festività, invece, cambiò a causa dell’invasione dei conquistadores.
Parte del sanguinario processo di conversione consistette nell’associare tutte le celebrazioni della morte nei giorni del calendario cristiano dedicati ai Santi e ai defunti. Difatti, la festività messicana si estende oggi su due giorni: il primo novembre è dedicato ai bambini mentre il due ai “Fieles defuntos”, ossia agli adulti, ed è il canonico dia de los muertos mostrato in Coco.
Halloween e el dia de los muertos: differenze
È difficile per i gringos (termine colloquiale con cui si indicano gli stranieri) capire che questa festa non è soltanto musica, canto e ballo. Unkrich ha girato Coco per far scoprire al mondo i suoni, i colori, i sapori e gli odori del dia de los muertos, anche per mettere in evidenza le differenze con Halloween, festa ben più impressa nell’immaginario collettivo. Il regista introduce gli oggetti caratteristici della cerimonia senza che questi distolgano l’attenzione dalla narrazione.
Partiamo dalle ofrendas, gli altari dedicati ai defunti. Essi presentano due, tre o sette gradini. Se sono due, uno rappresenta il paradiso e l’altro la Terra. Se sono tre si sta contando anche il purgatorio, o si fa riferimento alla Santa Trinità. Più raramente sono sette, come i peccati capitali. Occorre specificare che, essendo degli elementi risalenti alle epoche pre-colombiane, il loro significato attuale costituisce una rielaborazione in chiave cristiana sviluppatasi nel corso dei secoli.
A scendere si ritrovano piatti e oggetti apprezzati dal defunto. Alcuni di questi sono onnipresenti, come gli sgargianti teschi di zucchero detti calaveras, o il pan de muerto, un pane dolce fatto con semi di anice che in alcune aree viene ricoperto con una glassa che riproduce delle tibie incrociate.
Più decorativi sono i papel picado, i fogli di carta ritagliata usati nella sequenza iniziale per raccontare la storia della famiglia Rivera, ma soprattutto i petali di tagete. Noto anche come calendula messicana, questo fiore ha dei petali di un arancione brillante, il cui uso risale sempre agli Aztechi, secondo cui questi fiori potevano guidare i defunti nel buio dell’Aldilà.
L’arte dello spavento
Si potrebbe quindi erroneamente dedurre che il trucco sul volto di Mamà Imelda sia ispirato a una calavera. E se invece questa vedova dal malinconico passato avesse come modello la regina dei miti sudmericani? La Llorona, detta anche Catrina, è da sempre il simbolo della critica sociale per gli artisti messicani.
Presente in tutta l’America Latina, il mito nasce nelle strade di Tenochtitlan, l’odierna Città del Messico, ai tempi capitale dell’Impero Azteco. La leggenda, che presenta diverse versioni, narra di una donna indigena che dopo essersi innamorata di un nobile spagnolo diede alla luce due figli. Quando lei chiese di ufficializzare la relazione, venne rifiutata a causa delle sue origini. Spinta dal rancore, annegò i figli avuti dall’uomo in un fiume. Presto divenne vittima dei sensi di colpa, e si tolse la vita. Da quel momento una donna, alta, magra e vestita di bianco, aleggerebbe per le strade di Città del Messico.
Diego Rivera, uno dei più grandi artisti della storia messicana, si è avvalso di questa figura per celebrare la storia del Paese. Per esempio, nel murales Sogno di una domenica pomeriggio nel parco di Alameda, la Llorona è al centro di una parata di figure di spicco (principalmente diplomatici e politici, ma anche artisti), con avviluppato intorno al collo il dio Quetzalcoatl, il serpente piumato, da cui, come precedentemente accennato, avrebbe avuto origine la razza umana.
Nonostante sia stato Rivera a renderla celebre, fu José Guadalupe Posada che nel 1913 iniziò ad allegare delle vignette rappresentanti la scheletrica dama alle “calaveritas“, ossia piccole filastrocche satiriche che narrano della morte.
La Llorona, tuttavia, è l’unica autentica figura mitologica presente nel film. Il cane Dante e la gatta di Mamà Imelda, Pepita, sono infatti degli alebrijes. Le guide spirituali che proteggono Miguel durante il suo viaggio, seppur in parte sovrapponibili ad alcune creature mitologiche precolombiane, nacquero infatti nel 1936 dall’immaginazione dell’artista Pedro Linares Lòpez. Mentre era a serio rischio di morte a causa di una peritonite, l’uomo cadde in preda a delle allucinazioni, immaginandosi un tranquillo paesaggio di montagna i cui elementi iniziarono a tramutarsi in spaventose creature che gridavano la parola “alebrije“.
Il nome dell’amico a quattro zampe di Miguel è un chiaro omaggio al poeta italiano, ma non solo. Dante è uno xolo (diminutivo di xoloitzcuintle), il cane nazionale del Messico. Il nome di questa razza deriva dal dio azteco Xolotl, protettore dell’oltretomba e raffigurato con una testa canina. Questi animali erano necessari per superare alcune prove dell’ostico cammino per Mictlan, il “luogo dei morti”. La compagnia di uno xolo rosso o bianco ingraziava Xolotl, che permetteva al cane di mostrare la via al padrone.
Menzione d’onore per il Coco. Questa creatura non è presente nel film, tuttavia la bisnonna del protagonista condivide il nome con la versione ispanica dell’uomo nero. Quest’ultima si fa largo assieme ai conquistadores nelle menti delle civiltà precolombiane, e oggi è diventata, anche a queste latitudini, la protagonista di una filastrocca usata quando un bambino non vuole dormire o si comporta male.
In alcune versioni si tratta di un’ombra che spia le vittime ignare dai tetti, mentre addirittura nella versione brasiliana viene descritto come una donna dalle sembianze di un alligatore.
Invitati di un certo spessore
Coco chiama in causa dei nomi altisonanti della storia dell’arte e del cinema messicano, quasi tutti presenti nel palazzo di de la Cruz durante la sua festa. Quest’ultimo viene visto abbracciare Jorge Negrete e Pedro Infante, cantanti e attori della golden age del cinema messicano che sono stati la fonte d’ispirazione primaria per il rivale di Hector e Miguel.
Frida Khalo, una dei più famosi artisti messicani e una delle più importanti icone femministe della storia, è ritratta mentre è intenta a lavorare su un’opera per la festa nel distretto artistico della città.
Altre stelle presenti sono il wrestler El Santo, icona pop messicana che ha lavorato anche per il cinema, nonché la diva Maria Felix e il comico Cantinflas.
Ritmo!
Per le parti musicate, la produzione si affidò a Germain Franco, che di recente ha scritto l’intera colonna sonora di Encanto, e Michael Giacchino, compositore che ha iniziato la propria carriera collaborando con Spielberg e arrivando a orchestrare le colonne sonore di grandi film quali Jojo Rabbit nel 2019 e The Batman nel 2022.
Anche in questo caso ebbe un ruolo chiave la tradizione messicana. Germain Franco e Molina si recarono a Città del Messico e organizzarono delle jam session con cinquanta dei migliori artisti locali, senza dare indicazioni specifiche. Così facendo, i due compositori hanno avuto modo di approfondire i generi tradizionali delle varie regioni del Messico, tra cui il son jarocho, la marimba, la banda e il ranchero.
La città dei morti
L’Oltretomba azteco aveva una struttura complessa, tanto che il Mictlan era solo uno dei possibili “settori”. Tra questi si potevano riconoscere anche uno dedicato agli annegati, uno ai guerrieri e alle donne morte di parto (considerati alla pari), e uno ai bambini.
La cittadella dei morti che viene mostrata è ispirata a Guanajuato, capitale dell’omonimo Stato al centro del Messico, in cui è presente la statua di Jorge Negrete usata come riferimento per quella di de la Cruz. La città è considerata ufficialmente patrimonio dell’UNESCO e la sua architettura terrazzata che si crea grazie alle centinaia di stradine che salgono e scendono lungo le colline, che dà l’impressione di una città a sviluppo verticale, è stata di ispirazione per le torri che si vedono nel film.
In queste ultime si possono ritrovare elementi di architettura sia preispanica che moderna. Esse sono costruite sulle piramidi azteche, arricchendosi man mano di dettagli risalenti al periodo della rivoluzione messicana, al periodo vittoriano, al ventesimo secolo e ai giorni nostri. Il concetto è che nel mondo dei morti si costruisce sempre sull’era appena passata per far spazio alle anime in arrivo.
La città dove abitano i Rivera, Santa Cecilia, è invece ispirata a Santa Fé de la Laguna, nello Stato di Michoacan, famosa per le sue ceramiche (e non per i calzolai). Invece il cimitero dell’inizio del film è nato dalla fusione tra quello di Città del Messico e quelli delle regioni di Oaxaca e Michoacan.
La Marigold Grand Central è la stazione dei tram del regno dei morti. Questo edificio ha degli “antenati” illustri: il Palacio de Correos, risalente al 1907, il Grand Hotel Ciudad De Mexico, aperto nel 1908 e il Mercado Hidalgo, inaugurato nel 1910. Tutti e tre gli edifici hanno elementi gotici e vittoriani, che sono stati ereditati dalla Marigold.
Leggi anche: 10 film d’animazione che parlano di morte e aldilà
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Nel solco della tradizione
Coco è quindi una cartolina dietro cui Unkrich e Molina sembrano aver scritto una lettera d’amore al Paese “dov’è sempre primavera”, pescando a piene mani dalla sua mitologia e dalla cultura popolare, e mostrando al mondo la varietà di colori e tradizioni di uno dei più importanti Stati dell’America Latina, in maniera non dissimile a quanto fatto da Walt Disney in persona per altri Paesi con in Saludos Amigos e I tre caballeros. Ciò ha permesso al grande pubblico di conoscere le peculiarità di una terra che non viene rappresentata quanto dovrebbe, allegandovi un messaggio universale: quello dell’amore familiare, che permette di rimanere legati anche a persone che non ci sono più.
Hector Leoni
Immagini © Disney; Pixar; History
Fonti: Gobierno de Mexico; History; BBC; Hall of Series; Collider; Disney UK; FilmisNow Movie Bloopers & extra; Slate; Hollywood reporter; Jahshaka