Giuseppe Perego è sicuramente uno dei disegnatori più prolifici della scuola Disney italiana. Per il solo settimanale Topolino ha realizzato ben 347 storie, collaborando con sceneggiatori del calibro di Guido Martina e Rodolfo Cimino. Come ogni disegnatore, è ricordato soprattutto per il suo personale tratto, riconoscibile anche da occhi inesperti.
Tuttavia Perego, a differenza dei suoi colleghi osannati per i loro contributi, non gode di una buona reputazione a causa del suo stile, giudicato da alcuni poco idoneo agli standard del libretto. Parte dei lettori, infatti, reputa i suoi disegni esteticamente spogli e pieni di difetti. Inespressività dei volti, proporzioni del corpo esagerate, forme squadrate: queste sono alcune delle accuse più gravi che gli si rivolgono.
Eppure Perego non è mai stato al centro di una vera e propria valutazione critica. Per questa ragione, a quasi trent’anni di distanza dalla sua scomparsa, ci sembra doveroso cercare di fornire una spiegazione sul suo stile e sulla sua evoluzione avvenuta nel corso degli anni.
Giuseppe Perego Prima della Disney
Nato ad Arcore nel 1915, Giuseppe Perego iniziò a lavorare giovanissimo nel campo dell’animazione. A soli 17 anni venne assunto come aiuto collaboratore dallo studio Million Film dei fratelli Carlo e Vittorio Cossio. Qui il giovane Perego collaborò nel 1932 alla realizzazione di Zibillo e l’orso, considerato uno dei primi corti animati italiani.
Dopo la chiusura della Million Film per difficoltà economiche, Giuseppe Perego iniziò a collaborare con i principali periodici del periodo, specializzandosi principalmente in storie umoristiche. A partire dagli anni Trenta disegnò per il Corriere dei Piccoli e per alcune storie di Scimiottino e Modellina. Nel secondo dopoguerra si cimenta anche in fumetti del genere d’avventura, realizzando per la casa editrice Juventus le serie Flattavion e Pakito.
Per la casa editrice Edizione Alpe, realizzò invece la sua più celebre creatura, Buffalo Brill, parodia della celebre opera western Pecos Bill di Guido Martina. Considerato una sorta di cugino minore del ben famoso Cocco Bill di Benito Jacovitti, il fumetto è ambientato nella fittizia cittadina di Far-Prest e narra delle disavventure del protagonista Buffalo Brill impegnato a difendere la città dai continui assalti dei fuorilegge Fracassa e Sbornia.
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E alla fine arriva Giuseppe Perego
Sul finire degli anni ’40, in Italia si era registrato uno spaventoso calo di vendite dei fumetti, a causa delle ristrettezze derivate dalla Seconda Guerra Mondiale. Per far fronte alla crisi, la Mondadori decise di avviare un’intensa politica di rilancio di Topolino, modificandone il formato e la periodicità. Fu così che nel 1949 si passò dal “giornale” al “libretto”; nel 1952 quest’ultimo passò da una pubblicazione mensile a quella quindicinale e nel 1953, a partire dal numero 75, iniziò a essere stampato tramite brossura.
La novità più importante fu però quella di ridurre nuovamente la dipendenza del libretto dal materiale americano, offrendo ai lettori storie italiane inedite sulla scia della strategia già messa in atto negli anni Trenta sul Giornale. Per favorire questa linea la Mondadori lanciò un’intensa campagna di reclutamento, promettendo compensi persino cinque volte maggiori rispetto a quelli medi dei fumettisti di allora. Una strategia rischiosa, ma vincente: in poco tempo molti disegnatori, contraddistinti da diverse estrazioni regionali e professionali, risposero alla chiamata, formando la Seconda generazione di autori italiani Disney.
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Giuseppe Perego si unì allo staff di Topolino nel 1952, esordendo con Topolino e il satellite artificiale, per i testi poi attribuiti ad Antonio Rubino. La storia vede Topolino e Pippo che vengono imbarcati dall’eccentrico professor Pit Pat in una pericolosa missione che prevede il lancio di un satellite. I due eroi intraprendono un pericoloso viaggio nello spazio irto di peripezie e pericoli vari, che li porterà ad atterrare sulla Luna (anticipando gli eventi dell’allunaggio del 1969).
Topolino e il satellite artificiale rappresenta il principale banco di prova attraverso cui Giuseppe Perego si misura con i personaggi disneyani. Per il loro aspetto, in particolar modo, Perego prende principalmente spunto dalle strisce quotidiane americane degli anni ’30. Topolino indossa i suoi tradizionali calzoni rossi e le vistose scarpe gialle, mentre la sua fidanzata Minni appare con il suo gonnellino a pois e un cappellino con un fiore o un nastro sulla testa.
Merita una menzione anche Paperino, che compare in un cameo nelle vignette conclusive, in una forma “sperimentale“. Il papero appare con il becco più proporzionato e più squadrato, mantenendo la sua tradizionale casacca da marinaio di colore nero.
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Da un punto di vista artistico, lo stile di Perego subì una lunga evoluzione del suo tratto per meglio adattarsi all’aspetto grafico dei personaggi. Teoricamente è possibile suddividere il suo stile in tre fasi, ciascuna delle quali presenta caratteristiche proprie.
La prima fase: sotto l’ombra di Al Taliaferro
Negli anni ’50, malgrado le buone intenzioni della Mondadori, la produzione italiana Disney dipendeva ancora in parte dal materiale americano. Tuttavia, mentre una parte dei fumettisti nostrani guardava a Floyd Gottfredson come punto di riferimento, Giuseppe Perego cercò. almeno nelle intenzioni, di guardare ad Al Taliaferro, autore di innumerevoli strisce con protagonisti i paperi.
Perego si ispirò, con alterni risultati, al celebre cartoonist americano per l’aspetto grafico dei paperi. Questi ultimi vengono raffigurati dal corpo tondeggiante e tarchiato e con il becco più pronunciato. Qui, Quo e Qua, inoltre, portano un maglioncino con una riga centrale, simile a quello indossato nelle suddette strisce americane. Diverso è il caso di Paperone, al centro delle produzioni di Carl Barks: il miliardario si presenta con le basette più arruffate, con il becco quasi sempre spalancato e dall’iride più piccola e priva del tradizionale riflesso triangolare che ha contraddistinto i personaggi negli anni ’30.
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Nonostante la quasi totale dipendenza dal modello americano, non mancano alcuni elementi che contraddistinguono lo stile di Perego. In queste storie cominciano ad apparire i tipici “balzi” che accompagnano gli scatti d’ira o di euforia dei personaggi e che costituiscono uno dei personali marchi di fabbrica con cui Perego firmava le sue opere. Curiosamente, l’autore era anche solito raffigurare i paperi con un solo occhio quando di profilo.
All’inizio, il fumettista brianzolo faceva recitare i personaggi in ambienti non solo ricchi di dettagli (consuetudine che l’autore non avrebbe mantenuto per molto), ma che richiamassero anche i tipici scenari paesani italiani del dopoguerra. Le città di Paperopoli e Topolinia di Perego assomigliano più alle cittadine della penisola in procinto di espandersi, piuttosto che alle metropoli statunitensi.
Va detto che l'”italianizzazione” dell’universo di Topolino era una tradizione piuttosto comune tra gli autori italiani, che viene in parte portata avanti anche oggi (si pensi ai piatti cucinati da Nonna Papera o alla passione di Paperino per il calcio). Questa scelta editoriale avrebbe poi permesso alla rivista di diventare anche lo strumento perfetto per parodiare i costumi del Bel Paese.
La seconda fase: da tuttofare a “uomo dei prologhi”
Negli anni ’60, Topolino aveva già conquistato l’attenzione e l’affetto dei lettori italiani. Di fronte all’enorme successo riscosso, molti disegnatori iniziarono a sviluppare uno loro personale stile di disegno per raggiungere la loro maturazione artistica. Anche Giuseppe Perego decise di seguire l’esempio dei suoi colleghi, facendo evolvere il suo tratto in modo da distaccarsi dall’influenza di Al Taliaferro.
Ebbe così inizio la sua fase “intermedia” che coprì un periodo che andava dagli anni Sessanta fino ai Settanta. Visto l’ampio periodo di tempo, questo nuovo stile di Perego divenne il più diffuso e conosciuto, nonché il più criticato. In questa fase fecero infatti la loro prima comparsa alcuni degli elementi grafici aspramente criticati da una parte del pubblico di appassionati.
Il problema più grave, secondo alcuni, è rappresentato dall’aspetto dei personaggi, che assumono pose rigide e soprattutto appaiono privi di espressività sui volti, quasi come se fossero dei manichini. Questi difetti sono particolarmente evidenti nelle storie con protagonisti i paperi, raffigurati spesso con il becco aperto e con gli occhi spalancati. Gli ambienti, inoltre, iniziano a farsi sempre più spogli e poveri di dettagli rispetto al periodo precedente.
È in questa fase che la carriera di Giuseppe Perego si arricchisce di novità sul piano professionale. Tramite un contratto speciale, il fumettista di Arcore venne ingaggiato per realizzare le rubriche, le illustrazioni e la parte dedicata ai giochi del settimanale. Sempre in questi anni diventò uno dei principali copertinisti della redazione realizzando a partire dal numero 236 le copertine del libretto.
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Inoltre Giuseppe Perego iniziò anche la sua collaborazione con Gian Giacomo Dalmasso, sceneggiatore già noto per i suoi lavori con la Pantera Bionda. Il loro primo lavoro in coppia fu pubblicato nel 1955 con la storia Topolino e i due ladri, ma fu a partire dal 1959 che consolidarono un proficuo sodalizio professionale, il quale li avrebbe portati a realizzare ben 94 storie.
Il duo Perego/Dalmasso è noto anche per i contributi dati alla collana I Classici di Walt Disney. Nel 1957 la Mondadori lanciò una serie di antologie che avevano lo scopo di raccogliere in un unico volume alcune storie pubblicate in precedenza. Questi volumetti speciali avevano la particolarità di essere corredati con le tavole di raccordo (o prologhi) che fungevano da collegamento per le storie inserite. In particolare, Perego realizzò ben 82 prologhi.
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La terza fase: l’ultimo Giuseppe Perego
Nel 1980, sotto la guida del nuovo direttore Gaudenzio Capelli, Topolino conobbe una serie di novità editoriali. Sulle pagine del libretto cominciarono ad apparire le prime storie a bivi, nonché le prime grandi saghe, quali Topolino e la spada di ghiaccio.
A Capelli si deve soprattutto il merito di aver riorganizzato lo staff di Topolino. Il nuovo direttore aveva creato un ambiente di lavoro fresco e dinamico, superando l’impostazione simil-aziendale voluto da Mario Gentilini, suo predecessore e storico direttore della rivista. In questo modo la redazione si trasformò ancora di più in vero e proprio laboratorio artistico, dove disegnatori e sceneggiatori erano liberi di confrontarsi e sfogare tutta la propria creatività
Sullo sfondo di queste novità redazionali, tra il 1981 e il 1982, Perego “corresse” molti degli elementi grafici che avevano contraddistinto il periodo precedente. I personaggi apparivano meno rigidi del solito e più espressivi. I paperi, in particolar modo, vengono disegnati con il becco ridimensionato e non spalancato.
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Il 1981 costituì una cesura per la carriera di Giuseppe Perego: in quell’anno uscì Paperino e l’incubo dell’eredità, l’ultima storia che lo vide come unico disegnatore. Per tutto il 1982, l’autore, ormai un veterano, venne affiancato da giovani disegnatori (tra cui Roberto Marini), probabilmente per conferire una maggiore modernità al suo stile.
Zio Paperone e il piano strategico fu invece l’ultima opera in assoluto di Giuseppe Perego, che decise alla fine di appendere la matita al chiodo. Il fumettista si ritirò nella sua Arcore, dove sarebbe vissuto fino alla sua morte, avvenuta il 7 dicembre 1996.
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L’eredità di Giuseppe Perego
A distanza di più di vent’anni dalla sua scomparsa, Giuseppe Perego può essere ritenuto uno degli autori che ha subito i giudizi più altalenanti. Per chi ne critica i disegni, c’è anche chi lo difende, sottolineando gli enormi contributi editoriali dati, primo fra tutti quello di essere tra i principali contributori de I Classici di Walt Disney.
C’è, però, un aspetto della sua arte che non viene spesso tenuto in considerazione. Quando entrò a far parte dello staff di Topolino nel 1952, Giuseppe Perego era il disegnatore più anziano di tutti, con alle spalle una ventennale esperienza artistica divisa tra animazioni e fumetti. La sua fu una formazione da autodidatta, che lo portò ad assimilare l’essenza e le caratteristiche del fumetto italiano e (successivamente) americano degli anni ’30.
Nelle sue storie, per esempio, si vedono personaggi di sfondo dall’aspetto stravagante e bizzarro che sfoggiano un look vistoso, caratterizzato da sgargianti camicioni con papillon. Il tutto accompagnato da un susseguirsi di situazioni farsesche e carnevalesche che sembrano richiamare le atmosfere tipiche del Corriere dei Piccoli dei primi anni.
Ad ogni modo, la sua arte, per quanto possa sembrare povera e acerba, ha contribuito alla crescita e alla trasformazione del libretto. Si potrebbe dire che Perego, assieme ai grandi Maestri italiani della sua generazione, ha contribuito, con un lavoro da pacato e onesto artigiano, a rendere Topolino un pilastro della cultura fumettistica italiana e un appuntamento immancabile nelle lunghe giornate di tanti appassionati.
Antonio Ferraiuolo
Immagini © Disney – Juventus
Fonti:
I.N.D.U.C.K.S.
Fumettologica
Guida al fumetto italiano
Teorema
Fondazione Franco Fossati
Topolino e il fumetto italiano Disney. Storia, fatti, declino e nuove prospettive, Andrea Tosti, Edizioni Tunué, 2011
I Disney italiani, Luca Boschi, Andrea Sani, Leonardo Gori, Granata Press, 1990