Dina Babbitt fu una celebre artista e animatrice ebrea nata in Cecoslovacchia, poi naturalizzata americana, e fu testimone dell’Olocausto perpetrato dai nazisti durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1943 venne trasferita nel campo di concentramento Auschwitz-Birkenau assieme alla madre. Durante i mesi di prigionia dipinse un murales raffigurante Biancaneve e i sette nani, il Classico Disney del 1937, su una delle baracche abitate dai bambini. Il talento nel disegno di Dina Babbitt venne notato da Josef Mengele, che le chiese di dipingere alcuni ritratti dei prigionieri di etnia gipsy. Ciò permise alla giovane e a sua madre di sopravvivere fino alla liberazione del 1945 per mano degli Alleati.
La passione per l’animazione di Dina Babbitt e la deportazione
Annemarie Dina Babbitt, nata Gottliebova, nacque il 21 gennaio 1923 a Brno, nell’allora Cecoslovacchia. I genitori si separarono quando aveva solo quattro mesi, e crebbe sola con la madre, nutrendo un legame solitario ma saldo.
Nel 1937 arrivò nelle sale Biancaneve e i sette nani, il primo lungometraggio animato della storia. Il film di Walt Disney affascinò la giovane Dina: lo vide sette volte. Ad appassionare l’adolescente furono soprattutto la storia romantica e il design artistico. Era evidente il suo interesse per l’animazione e per l’arte in generale, così la giovane decise di trasferirsi a Praga per frequentare l’Accademia di Belle Arti.
Nel 1939 i nazisti invasero e conquistarono la Cecoslovacchia. Nel 1942 la madre Johanna Schawl fu convocata assieme ad altri ebrei per essere individuati e radunati. Dina Babbitt non l’avrebbe mai lasciata sola, e decise di lasciare volontariamente la scuola per raggiungere la madre a Brno.
Vennero inviate nel liceo frequentato dalla stessa Dina pochi anni prima, e lì private di ogni bene. Il giorno del suo 19° compleanno, il 21 gennaio 1942, Dina e la madre raggiunsero il ghetto ebraico di Theresienstad, con uno dei primi treni utilizzati per le deportazioni, e il settembre successivo vennero trasferite nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau in Polonia, con altre 5000 persone. Anche il padre, la matrigna e i loro figli furono deportati nei campi di concentramento nazisti, come il giovane fidanzato di Dina, Karel Klinger. Nessuno di loro sopravvisse.
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Auschwitz e la Biancaneve di Dina Babbitt
Madre e figlia vennero separate, e Dina passò i tre giorni di viaggio piangendo e disperandosi. Una volta giunte al campo vennero denudate e rasate, e così iniziò il calvario delle due donne ad Auschwitz.
Dopo quasi un mese, Dina e la madre vivevano nella baraccopoli del lager, e la ragazza venne avvicinata da un kapo, che le chiese di decorare una parete dell’edificio che ospitava i bambini, porgendole dei colori. All’epoca, affermò la Babbitt a Good Times, circa 60 minori dai 6 ai 16 anni erano tenuti prigionieri nelle baracche. Con la speranza di alleviare almeno mentalmente le sofferenze inumane che gli internati pativano nel campo, Dina cominciò a dipingere un bel paesaggio svizzero con prati, monti e fiori somiglianti a quelli che apparivano nei cartoon dell’epoca. Forse il murales poteva rappresentare una labile via di fuga per i bambini che lo osservavano.
Una piccola folla di ragazzini cominciò radunarsi dietro a Dina mentre dipingeva, che chiese loro cosa desiderassero che aggiungesse al disegno, se mucche o cavalli. I bimbi, ammaliati dal murales, risposero che avrebbero voluto vedere Biancaneve e i sette nani, così Dina Babbitt cominciò a tratteggiare la figura della principessa, come ammirata come pochi anni prima al cinema.
Il disegno raffigurava Biancaneve impegnata in un divertente ballo con Cucciolo, mentre i nani suonavano i loro strumenti musicali facendo festa, replicando una nota scena del film del 1937. I bambini amarono l’opera creata da Dina, osservandola con stupore. Biancaneve, con il suo mondo incantato e idilliaco, si contrapponeva tragicamente all’orrenda realtà di Auschwitz, dove si stava consumando una delle pagine più scellerate e odiose dell’umanità. I ragazzini morirono in seguito di stenti o nelle camere a gas.
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L’incontro con Mengele
L’aver decorato la parete dei bimbi con il suo disegno inquietava Dina, che temeva di essere notata dalle SS. Infatti pochi giorni dopo venne convocata da un tal dottor Lukas, che le chiese se fosse lei l’autrice del murales. La Babbitt ammise di aver dipinto Biancaneve e i sette nani e il nazista le ordinò di seguirlo sulla jeep, aprendole anche la portiera. Il gesto apparve strano alla giovane, che pensò piuttosto a uno scherzo, e che sarebbe stata uccisa da lì a poco.
Venne trasportata invece presso il campo dei prigionieri di etnia romanì. Il dottore si rivolse a un uomo coperto da un panno nero e chino su una telecamera, avvisandolo che la donna era arrivata. Joseph Mengele si tolse il manto nero e si voltò verso di lei, chiedendole:
“Sai fare dei ritratti?”
Dina non aveva altra scelta che rispondere di sì. Mengele domandò quindi alla giovane ebrea se fosse in grado di replicare l’esatta tonalità della pelle dei prigionieri nei suoi quadri, e Dina rispose che ci avrebbe provato. Mengele desiderava dei ritratti raffiguranti i prigionieri gipsy, poiché riteneva non soddisfacenti la resa di macchine fotografiche e cineprese, ai fini dei suoi studi. Dina Babbitt accettò (non poteva fare altrimenti), ma chiese che anche la madre venisse risparmiata: se l’ufficiale delle SS non avesse acconsentito, si sarebbe gettata sul filo spinato elettrificato e sarebbe morta con lei. Mengele le chiese quale fosse il suo numero, l’odioso codice identificativo che i nazisti tatuavano sul braccio dei prigionieri, e Dina fece ritorno al suo campo di prigionia.
“L’Angelo della morte”
Josef Mengele, chiamato anche “l’Angelo della morte“, fu un ufficiale e medico nazista tristemente noto per i suoi esperimenti nel campo di prigionia di Auschwitz-Birkenau. Fermamente convinto della superiorità della razza ariana, dedicò ogni suo sforzo nell’individuare presunte prove scientifiche sull’inferiorità della razza ebraica e soprattutto rom. Condusse esperimenti inumani e crudeli sulle sue cavie, per lo più gemelli e bambini.
La scelleratezza, la disumanità e lo spregio nei confronti della dignità dell’essere umano dimostrate dai nazisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale furono una tra le cause principali della nascita del Codice di Norimberga, il primo documento internazionale moderno in materia di bioetica a fissare gli obiettivi e i limiti della ricerca scientifica.
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I ritratti di Dina Babbitt ad Auschwitz
Sei mesi dopo, a marzo del 1943, i prigionieri ancora in vita vennero trasportati nell’area di quarantena. Dina sapeva che quello fosse il limbo in cui gli ebrei dovevano attendere prima di essere trasportati nelle camere a gas. Gli internati passarono una notte di tribolazioni, in attesa del destino scelto per loro dai carcerieri. Dina ricordava ancora la melodia cantata da una sua compagna in quelle ore per darsi coraggio. Proprio quando qualcuno di loro pensava che sarebbero state risparmiate e trasferite in un nuovo campo di lavoro, un soldato delle SS cominciò a leggere una lista delle persone che non erano state destinate alla camera a gas. Dopo la madre, Dina fu l’ultima dell’elenco, che svenne per pochi secondi. Gli esclusi vennero eliminati.
La coppia di donne fece ritorno al loro vecchio campo assieme a un gran numero di gemelli che sarebbero stati impiegati come cavie da Mengele. Pochi giorni dopo Dina venne scortata presso il campo gipsy, dove avrebbe dovuto iniziare a dipingere i suoi ritratti scegliendo qualcuno degli internati.
Celine
Dina individuò una donna, che scoprirà essere Celine. La ragazza era una giovane madre emaciata e molto triste. Celine non era stata in grado di allattare il figlio di due mesi e di trovare di che sfamarsi, e il bimbo era morto di denutrizione. Il pane nero che i nazisti fornivano ai prigionieri era inadatto al sostentamento alimentare. Dina chiese a Celine se potesse aiutarla in qualche modo, e la giovane le chiese del pane bianco. La Babbitt si rivolse quindi a Mengele per del pane bianco, che lo concesse. Dina, in segreto, subito dopo cedette il cibo alla giovane rom.
Dina definì quel ritratto come la sua “Madonna Gipsy“. Celine aveva un volto elegante, segnato dalla sofferenza. Una sciarpa copriva i suoi capelli rasati, esponendo un orecchio sporgente, dettaglio che interessava Mengele. Solo di rado l”Angelo della morte” si fermava a commentare le sue opere, per lo più per indicare assurdi dettagli biologici e genetici che (a parer suo) evidenziavano l’inferiorità della razza rom:
“Una bocca ariana è come una “m”, una bocca da zingara ha una forma diversa. […] Gli zingari hanno un’attaccatura dei capelli diversa rispetto agli ariani…”
La liberazione
Dina aveva solo 21 anni quando dipinse altri otto quadri raffiguranti persone gitane, nelle settimane successive, più due ritratti di compagni che mantenne segreti. In questo modo riuscì a guadagnare un po’ di tempo a lei e alla madre, e dare una testimonianza concreta delle vittime del campo di concentramento.
Il 18 gennaio del 1945 Dina, Johanna e gli altri prigionieri vennero costretti a una marcia forzata nella neve per abbandonare Auschwitz, a causa dell’avanzata degli Alleati nei territori controllati dai nazisti. Il viaggio durò tre giorni, e Dina dovette cibarsi della sola neve raccolta per strada per sopravvivere: fermarsi significava la morte.
Mentre Auschwitz veniva liberata dall’esercito sovietico, Dina e la madre vennero trasferite a Ravensbruck, in Germania, in un altro campo di concentramento riservato alle donne. Poi la giovane venne assegnata a Neustadt-Glewe, dove fu costretta a lavorare in una fabbrica di aeroplani.
Finalmente, il 5 maggio del 1945, un manipolo di soldati sovietici e quattro militari americani liberarono Dina, sua madre e la loro amica e compagna Lexia. Vagarono per sei settimane in Germania, finché non riuscirono a far ritorno a Praga. Dopo tre anni e mezzo nei campi di concentramento, nessuno le stava attendendo, essendo le uniche superstiti della loro famiglia. Dina ricordò come vedere quelle persone con il cappello e i cappotti affollare le strade le disorientasse, non riuscivano a capire dove li avessero trovati. Desiderarono addirittura tornare indietro. Gli anni di prigionia avevano piegato così tanto il loro spirito e la loro mente da far dimenticare loro la libertà.
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La carriera lavorativa e il matrimonio con Art Babbitt
Ritornata a Praga, Dina cercò di rimettere in sesto la sua vita concentrandosi sulla sua grande passione, l’animazione. Si trasferì con la madre a Parigi, dove fece un colloquio e divenne l’assistente del famosissimo animatore americano Arthur Harold Babitsky, conosciuto come Art Babbitt. Babbitt fu per anni un animatore di punta dei Walt Disney Studios, fino alla rottura con Disney in seguito al noto sciopero che capeggiò nel 1941. Babbit è noto per aver plasmato il personaggio di Pippo e per aver lavorato a numerosi Classici Disney, come Dumbo, Pinocchio e in particolare proprio Biancaneve e i sette nani.
Dina e Art si innamorarono e dopo 6 mesi convolarono a nozze, nell’aprile del 1949. Dina acquisì il cognome Babbitt e diede ad Art due figli, Michele Kane e Karin Babbitt. Gli sposi in seguito si trasferirono ad Hollywood, e vissero insieme per 14 anni, fino al divorzio avvenuto nel 1963.
Dina dedicò tutta la sua vita all’animazione e alle pubblicità (si occupò dei cereali Cap’n Crunch ad esempio), lavorando per importanti compagnie come la Metro-Goldwyn-Mayer e la Warner Bros, con personaggi come Willy il Coyote dei Looney Tunes.
Nel 1979 Dina Babbit si trasferì a Santa Cruz, in California, dove continuò a lavorare inviando i suoi lavori ad Hollywood per posta fino al suo ritiro. Morì a 86 anni a Felton, nel 2009.
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La scoperta dei quadri di Auschwitz
Nel 1973 il Museo statale e Memoriale di Auschwitz-Birkenau contattò Dina Babbitt informandola del ritrovamento di sei dei suoi nove ritratti dipinti durante il suo periodo di prigionia (un settimo venne scoperto nel 1977). I quadri erano stati scoperti pochi anni prima e venduti al museo, ipotizzando che la persona che li avesse firmati (Dina 1944) fosse deceduta. Dina però venne identificata e la donna decise di ritornare in Polonia, dove riconobbe con emozione i suoi vecchi quadri. Ebbe un’amara sorpresa: il Museo non permise a Dina di portare con sé i ritratti.
«Sono proprio i miei quadri; appartengono a me, c’è la mia anima lì dentro, e senza quei quadri non sarei viva e non lo sarebbero neanche i miei figli e i miei nipoti.[…] Li ho creati io. Di chi altro potrebbero essere?»
La battaglia legale
Dina diede inizio a una battaglia legale che continua ancora oggi, anni dopo la sua morte, per volontà dei suoi figli e nipoti. La Babbitt ribadì sempre con forza il diritto di riappropriarsi dei quadri che era stata costretta a dipingere. Ma che avevano per lei un significato straordinario. Il suo desiderio era quello di tenere di nuovo in mano i dipinti che riportavano la sua firma, che raffiguravano i suoi vecchi compagni nel campo di concentramento, per poi destinarli a un museo di sua scelta.
Il Museo di Auschwitz-Birkenau e i suoi direttori nel corso degli anni hanno sempre affermato con forza che tali dipinti fossero dei manufatti insostituibili della storia della Shoah, saldamenti legati alla storia di Auschwitz, e che come tali dovessero essere conservati nel Museo. Le inviarono, in sostituzione, invece delle copie in regalo.
[…] Every single loss of even the smallest part of the documentation will be an irreparable loss and a shadow on the memory of Auschwitz Concentration Camp victims. [Babbitt’s] watercolors are scarce surviving documents on the Holocaust committed on the Roma people. Both those Roma people who survived the mass murder and the representatives of European Roma organizations share our viewpoint that the portraits should remain in Oświęcim.
[…] Ogni singola perdita anche della più piccola parte della documentazione sarebbe una perdita irreparabile e un’ombra sulla memoria delle vittime del campo di concentramento di Auschwitz. Gli acquerelli [di Babbitt] sono tra i pochi documenti sopravvissuti sull’Olocausto commesso contro il popolo Rom. Sia le persone Rom sopravvissute all’omicidio di massa che i rappresentanti delle organizzazioni Rom europee condividono il nostro punto di vista secondo cui i ritratti dovrebbero rimanere a Oświęcim”.
L’opinione pubblica americana
La disputa interessò l’opinione pubblica americana e coinvolse anche diversi membri della Camera dei Rappresentati e del Senato come Shelley Berkley e Barbara Boxer, senza però ottenere alcun risultato.
Nel 2008 gli artisti e illustratori Neal Adams e J. David Spurlock lanciarono una petizione sottoscritta da altri 450 fumettisti chiedendo al Museo di Auschwitz-Birkenau di restituire i dipinti alla Babbitt.
Il fumetto su Dina Babbitt
Neal Adams e Rafael Medoff, a capo del David S. Wyman Institute for Holocaust Studies, decisero di dedicare un fumetto a Dina Babbitt. Medoff curò i testi mentre Adams illustrò le sei pagine che rappresentavano l’esperienza della Babbitt nel campo di concentramento di Auschwitz. Stan Lee ne scrisse invece l’introduzione. Il fumetto sulla Babbitt venne anche ristampato nel 2008 nel comic Marvel X-Men: Magneto Testament.
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La donna che dipinse Biancaneve ad Auschwitz
Sui più di 5000 ebrei cecoslovacchi che partirono con Dina Babbitt e la madre da Theresienstad il 21 gennaio 1942, solo 27 fecero ritorno a casa. Dina era una donna forte, razionale, che mantenne la lucidità anche nei momenti più oscuri della sua permanenza ad Auschwitz, saldamente attaccata ai suoi principi e ai suoi legami. La sua forza d’animo le permetteva anche di fare rare osservazioni di dark humour. Una volta riconquistata la libertà, anni dopo decise (approfittando di un diverso intervento) di cancellare chirurgicamente il numero identificativo sul braccio tatuato dai nazisti, il 61016. La Babbitt affermava ironicamente che ogni tanto usava giocare quella cifra alla lotteria della California, senza cavare un ragno dal buco.
Degli anni trascorsi nel campo di concentramento Dina voleva ricordare e trasmettere non solo la sofferenza, la crudeltà e il folle odio patito, ma anche i momenti di solidarietà tra i detenuti, gli atti di genuino amore scambiati tra estranei divenuti fratelli nella sventura, la bontà dei gesti tra persone che non pretendevano nulla in cambio.
Dina Babbitt: un esempio di dignità
Il talento di Dina Babbitt per il disegno e la sua passione per Biancaneve e i sette nani permisero alla giovane ebrea di salvare se stessa e la madre, sfruttando l’occasione di un folle capriccio di Mengele. In un luogo in cui la vita e la morte delle persone era decisa dall’arbitrio di sadici carcerieri. Le opere di Babbitt, che non rinnegò mai, sono una preziosa testimonianza delle persone cadute vittime dell’eccidio nazista.
Fino alla fine, la Babbitt non odiò né la Germania né i suoi abitanti. Pur vivendo l’Inferno in Terra, Dina cercò comunque di fare del bene. Dina non era indifferente alle sofferenze degli altri, e cercò di lenire il dolore altrui come poteva, con piccoli gesti di solidarietà. Conservando l’ultima cosa che i nazisti non erano riusciti a toglierle, la sua umanità.
«L’indifferenza racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore. L’indifferente è complice. Complice dei misfatti peggiori»
Sen. Liliana Segre
Antonio Glide Manno
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Fonti: The New York Times, Wikipedia, Vanity Fair, Los Angeles Times, BabbitBlog, Good Times Santa Cruz, The Jewish News of Northern California, Repubblica, WDFMuseum