Ci avete mai pensato? Le storie dei Paperi che tanto amiamo sono del tutto assimilabili a delle favole. Zio Paperone e il re del fiume d’oro non fa eccezione e, anzi, ricalca gli stilemi più classici di questo particolare genere narrativo. Lo fa però con una modernità estrema, da lasciare sbigottiti.
Secondo la definizione Treccani, la favola è una “breve narrazione, di cui sono protagonisti, insieme con gli uomini, anche animali, piante o esseri inanimati (sempre però come tipizzazioni di virtù e di vizi umani), e che racchiude un insegnamento di saggezza pratica o una verità morale, spesso dichiarati esplicitamente dall’autore stesso”.
Nelle favole recitano animali che rappresentano pregi e difetti dell’umanità, e dalle cui avventure e disavventure si possono trarre insegnamenti e lezioni. Nonostante siano molto semplici e gradevoli da leggere, le favole sono permeate da risvolti ironici, cinici, sardonici, volti a mettere in burletta i reali limiti della società del tempo. Vi suona familiare?
Carl Barks, in un certo senso, può essere considerato un autentico autore di favole. Il più grande del Novecento. Con la sua commedia Papera ha raccontato, per mezzo di anatre antropomorfe, tutte le nevrosi e i disagi dell’Uomo nell’Età del Consumo. Nel caso di Zio Paperone e il re del fiume d’oro (Uncle Scrooge and The Golden River, 1958) questo è particolarmente evidente, fin dall’incipit.
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Zio Paperone e il re del fiume d’oro: un miliardario nevrotico
La storia si apre con un Paperone particolarmente nervoso in quanto, con l’arrivo del clima asciutto, le banconote del Deposito si afflosciano e il livello del denaro gli sembra cali inesorabilmente. La sua è però solo una sensazione, e Barks ci fa leggere un pensiero in cui lo esplicita. È consapevole che il numero dei verdoni non sia diminuito, ma ciò non basta a farlo stare tranquillo. In parole povere, è una semplice paranoia… che il magnate riversa tutta sul prossimo.
I dipendenti bevono troppa acqua, sprecandola; gli impiegati devono scrivere su entrambi i lati dei fogli e persino sui margini; i segretari non devono fare errori, poiché consumano troppe gomme. Barks rappresenta la frenesia del miliardario con tratto dinamico, ampio sfoggio di linee cinetiche e persino delle fiamme (metaforiche) che gli vediamo sputare dal becco!
Il cartoonist è bravo a inserire anche una parentesi di riflessione intimista. Dopo la sfuriata, rimasto solo a guardare il suo denaro, Paperone ripensa a quanto si sia ammazzato di fame, freddo e fatica per metterlo insieme, e come gli spezzi il cuore vederlo ridotto – letteralmente! – in quello stato. L’avarizia e il caratteraccio ci vengono giustificati da un amore immenso per il lavoro di una vita, e dalla volontà di proteggere quello stesso amore. Non è un inserto banale, né tantomeno immediato.
La modernità della storia risiede sia nella complessa e contraddittoria caratterizzazione di Paperone (scorbutico e avaro, ma anche malinconico e, come vedremo, romantico) sia nelle dinamiche narrative che Barks imbastisce fin da subito, soprattutto per quanto concerne i rapporti tra Paperone e i nipoti. Questi ultimi lo vanno a trovare sperando che “non abbia la luna”, dato che intendono chiedergli dei dollari (cinque) per un campo sportivo.
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Segue una scenata apocalittica, come solo lo zione sa fare. “Questo è il torto della gente, oggi! Troppe persone perdono tempo a spassarsela! […] Poi, quando si sono rovinati a furia di gioco, cinema, partite e balli, vengono da ME per comprare ai loro marmocchi un campo sportivo! Da ME, che non mi concedo mai uno svago! Da ME, che non vado mai a ballare, a giocare al golf, a pescare!”. Poi, il colpo da maestro: la leggendaria botola scaccia-intrusi, qui utilizzata forse per la primissima volta.
Paperino non vuole arrendersi e cerca di convincerlo con i metodi più disparati, fino a causare – indirettamente – danni per un milione di dollari. Ne consegue, chiaramente, il crollo nervoso del riccastro. Lo schema che vede susseguirsi una nevrosi e un collasso/punto di non ritorno, sfruttato anche in storie come Paperino, Zio Paperone e il Ventino Fatale, Zio Paperone e la dollarallergia e Zio Paperone pesca lo skirillione, viene qui affrontato e sviluppato nella sua forma più autentica. È così che si creano i presupposti per il secondo tempo dell’avventura.
Una magia lungo il fiume
Paperone è trascinato dai nipoti in un idilliaco rifugio alpestre, dove poter riposare senza pensare al denaro e alle preoccupazioni della finanza. Trattenerlo seduto e al calduccio sotto le coperte non è impresa da poco: PdP si dimostra riottoso e poco collaborativo, non vuole essere trattato come un vecchio bacucco. Per placare il suo argento vivo, uno dei nipotini decide di leggergli un racconto: The King of the Golden River or The Black Brothers: A Legend of Stiria, pubblicato da John Ruskin nel 1850. La traduzione italiana? Il re del fiume d’oro. I pianeti cominciano ad allinearsi.
Carl Barks, per una volta, decide di menzionare espressamente la sua fonte d’ispirazione, rendendola a tutti gli effetti una componente diegetica della storia. Quando Zio Paperone e il re del fiume d’oro viene pubblicata su Topolino (il 10 marzo 1959, sul numero 206) i lettori conoscono bene il racconto di Ruskin: Guido Martina ne aveva curato una riduzione in testo sui numeri 176 e 177, in edicola sul finire del 1957. Ma di cosa parla questa storia?
C’erano una volta tre fratelli che vivevano in una valle arida, un tempo bagnata da un fiume che, quando il sole tramontava, si arricchiva dei colori dell’oro. Hans e Schwarz, i maggiori, erano violenti ed egoisti; Gluck, dodicenne, possedeva invece un animo buono e gentile. I tre conservavano enormi ricchezze dentro casa, sottratte a spese delle valle e dei suoi abitanti, che nessuno doveva vedere. Un giorno uno gnomo consegna loro dell’acqua benedetta che, sostiene, versata da una cascata avrebbe trasformato il fiume in oro. Lungo il cammino incontrano assetati e bisognosi che Hans e Schwarz rifiutano di aiutare, mentre Gluck impiega tutta la sua acqua per dare da bere a chi glielo chiedeva. Come nella più classica tradizione fiabesca, i fratelli malvagi vengono puniti e trasformati in massi neri, mentre Gluck viene ricompensato dallo gnomo, che fa cambiare corso al fiume e rende nuovamente fertile la valle.
Il re del fiume d’oro, una favola morale
La storia scorre parallelamente a quanto accade nel racconto di Ruskin, che Barks condisce con forti dosi di umorismo e gag visive. Paperone in un primo momento considera Gluck uno sciocco, asserendo che nella vita reale la generosità sia il mezzo più sicuro per andare in rovina.
E in effetti nel “nostro” mondo il sistema pare essere incontrovertibilmente dalla parte degli Hans e degli Schwarz, i “Fratelli Neri” della storia. Spregiudicati e cinici, non esitano a parassitare tutte le risorse sul mercato, depredando ambiente e lavoratori e tagliando fuori chi non dispone di un animo altrettanto vorace. Nella fiaba è Gluck, inizialmente oppresso dai fratelli, a ridistribuire equamente le fortune che si è ritrovato senza alcun merito particolare. Ed è proprio questo suo gesto, semplice ma eccezionale, a rovesciare le sorti dell’ecosistema in cui vivono lui e gli altri, nel solco di una storia intrisa di spiritualità e senso della giustizia. Una morale forse spicciola, come si addice a una fiaba, ma che ci racconta di una forma mentis che bisognerebbe prendere maggiormente in considerazione in un mondo che agisce assai più spesso come Hans e Schwarz che come Gluck.
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Carl Barks ce lo suggerisce attraverso le azioni del suo Paperone. L’equilibrio dell’habitat e della società è troppo spesso sfigurato dai comportamenti e dalle avidità dei singoli. L’etica che permea il racconto (sia di Ruskin, sia di Barks) ci narra di una bellezza sopita, depredata dal cinismo e riconquistata dalla bontà d’animo. Ma, ancora una volta, la morale è da intendersi più come una direzione generale che come un insegnamento didascalico e bacchettone.
Inizialmente, sono i nipoti a cercare di forzare lo zione a scucire i dollari necessari a costruire il campo sportivo. Tentano di suggestionarlo con mille stratagemmi, creativi ed esilaranti, che vedono infine Paperone cedere; ma la sua è un’elemosina interessata, che non porta a nulla. Il succo del discorso sta proprio qui: non è importante donare, quanto piuttosto lo spirito con cui lo si fa. Come si diceva prima: la direzione, l’attitudine.
Il finale vede Paperone comprendere quanto lo gnomo, il Re del Fiume d’Oro, ha cercato di insegnare invano ai due fratelli malvagi, che giacciono nel letto del fiume sotto forma di pietre nere, inerti e inutili. Il magnate è convinto che esista qualcosa di magico, di spirituale, anche se i nipoti gli confessano tutte le macchinazioni ai suoi danni. Ma a lui non interessa, non più. La sua espressione è distesa, il suo volto rilassato, si ritrova più sereno e saggio. Ed è per questo, proprio per questo, che il fiume inizia finalmente a brillare con le sfumature più sgargianti e preziose dell’oro vivo.
La preziosità di questo momento è rivelata anche dal fatto che Carl Barks, scettico convinto che utilizzava le sue storie per mettere in guardia i lettori da sedicenti maghi e ciarlatani o da stupide superstizioni, in questo caso mette in dubbio la razionalità dei nipoti e sembra schierarsi a favore dell’ipotesi “mistica” sostenuta da PdP.
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Perché sì, c’è tanto da scoprire in questa modernissima favola dei Paperi, per coloro che non intendono fermarsi al significato più banale e melenso della classica morale fiabesca. Questo piccolo enorme messaggio, nascosto tra le pieghe della carta e nello spazio bianco tra le vignette, sembrerebbe la chiave per far scorrere l’oro nel proprio fiume. Oggi, domani… e sempre.
Mattia Del Core
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Fonti:
La Grande Dinastia dei Paperi, vol. 12: “Zio Paperone e il re del fiume d’oro e altre storie”.
Enciclopedia Treccani
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