La storia dell’animazione in venti scene

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Le arti, si sa, sono sette: architettura, scultura, pittura, poesia, musica, danza e cinema. Qualche mente aperta potrebbe contare anche un’ottava, la fotografia, e una nona, il fumetto. Il ragionevole dubbio che oggi vogliamo porvi è però questo: e l’animazione? Merita forse l’animazione una sua storia, un suo valore? Va accorpata al cinema, in quanto praticata con lo stesso medium? È da considerarsi figlia di due diverse arti, cinema e pittura (o cinema e fumetto)? O, radicalmente, va esclusa a priori dalla rosa delle arti? Quest’ultima scelta è, crediamo, completamente ingiusta.

Vi siete mai domandati quante e quali persone lavorino a un film d’animazione? Non vi sono i soli (seppur essenziali) animatori. Abbiamo pittori, sceneggiatori, fumettisti, scultori, compositori, coreografi, e gli immancabili cinematografari assortiti che trasportano il lavoro dei loro colleghi su pellicola filante. Questa vera e propria famiglia circense, salta all’occhio, è composta da sacerdoti di tutte e sette le arti. Che l’animazione sia una sorta di Unica Arte, come direbbe Tolkien, per domarle tutte? Non sta di certo a noi giudicare, ma è un’idea assai piacevole.

Dunque, abbiamo appurato che l’animazione è un’arte a tutti gli effetti: è la più giovane del gruppo, con poco più di 100 anni di vita. Ma proprio per questo, ripercorrere la storia dell’animazione per chi desidera saperne di più su queste fantastiche opere è infinitamente più semplice che con un’altra arte. Ed è proprio questo il viaggio che intraprenderemo ora. Sulle orme dei primi pionieri, ritorneremo agli albori dell’animazione, per arrivare infine ai capolavori che i più fortunati hanno avuto l’onore di gustare al cinema.

Naturalmente, i momenti memorabili della storia dell’animazione sono fin troppi per essere inclusi tutti fra le tappe che visiteremo. E il rischio di mancare di oggettività per privilegiare un classico rimasto nei nostri cuori fin da bambini è davvero alto. Per questo, abbiamo selezionato cortometraggi, lungometraggi e serie che per la loro avanguardia tecnica, innovazione tematica e fama attraverso gli anni più ci possono istruire sui vasti traguardi raggiunti dall’animazione attraverso la storia. Fatta questa doverosa premessa, vi presentiamo e vi mostriamo la storia dell’animazione in venti scene da noi selezionate.

NB: Questo approfondimento trae ispirazione da un omonimo articolo de Il Post e da un più vasto elenco stilato da Vulture. Tuttavia, le scene scelte sono per vari motivi differenti e soprattutto più focalizzate sull’animazione tradizionale.

Gertie solleva il suo domatore (Gertie the Dinosaur, 1914)

animazione

Diretto dall’americano Winsor McCay nel 1914, Gertie the Dinosaur è in ritardo di ben 23 anni per il titolo di primo spettacolo animato mai proiettato davanti a un pubblico (primato che spetta al francese Charles-Émile Reynaud con il suo Pauvre Pierrot del 1891). Tuttavia, vanta un importantissimo merito mai raggiunto prima da altra animazione nella storia: è il primo cartone animato con un personaggio riconoscibile.

Al giorno d’oggi, è per noi naturale vedere l’immagine di un determinato personaggio ed esclamare: «Lo conosco! È il protagonista di Cartone X». Ma nel 1914, le uniche animazioni che circolavano proponevano soggetti usa e getta, facce umoristiche, piccoli “signori nessuno” che avrebbero intrattenuto il pubblico per pochi minuti e sarebbero poi spariti per sempre dalla memoria collettiva. Questo, almeno, prima dell’arrivo di Gertie the Dinosaur.

La trama del corto è questa: per vincere una scommessa con gli amici, lo showman Winsor McCay assicura di poter mostrare loro un dinosauro vivo. Gli bastano un foglio di carta e un pennarello, et voilà, al pubblico viene introdotta Gertie, la piccola (si fa per dire) brontosaura. McCay procede quindi a impartirle vari comandi, facendole eseguire degli esercizi simili a quelli degli elefanti ammaestrati. Ma proprio come i suoi parenti in carne e ossa, Gertie ha una personalità: fa i capricci, si lamenta, temporeggia e piange quando è sgridata. Una vera diva che il pubblico ha da subito amato. Ma non si deve dimenticare la straordinaria tecnica di esecuzione di questo cartone; animata da McCay in solitaria, Gertie ha un respiro ritmico, sposta il peso da una zampa all’altra e fa ondeggiare la coda.

McCay stesso ha ricoperto un ruolo di primo piano nel successo di Gertie come icona: nominato dai giornali America’s Greatest Cartoonist (appellativo che, purtroppo, non sarebbe invecchiato molto bene), presentava Gertie the Dinosaur come uno spettacolo itinerante di vaudeville, e se stesso come il suo intrepido domatore. Ed è proprio con l’immagine finale di Gertie the Dinosaur, con la piccola figura in smoking nell’enorme bocca del brontosauro, che vogliamo ricordare Winsor McCay e la sua fedele Gertie.

McCay ideò numerose innovazioni tecniche, come ad esempio i fotogrammi chiave, che avrebbero rivoluzionato l’animazione come oggi la conosciamo. Tuttavia, si rifiutò sempre di depositarne il brevetto, che oggi varrebbe una fortuna, asserendo che:

“Qualunque idiota che si ritrovi con la voglia di fare qualche migliaio di disegni per pochi minuti di pellicola finita, è benvenuto nel club.”

Diciamo che, con gli anni, questo club è diventato un vero porto di mare.

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Felix litiga con Charlie Chaplin (Felix in Hollywood, 1923)

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Se Gertie è stata il primo personaggio degno di nota della storia dell’animazione, allora Felix the Cat è stato la prima superstar. Ideato da Otto Messmer, fu universalmente famoso fin dai tardi anni ’10, con successi paragonabili a quelli dei suoi colleghi umani. Felix ha trasportato l’animazione dalle piccole sale ai tappeti rossi di Hollywood, e ha ottenuto grande fama anche nel regno dei fumetti. Una rivoluzionaria stella del passato, ecco cosa è stato.

L’innovazione del personaggio di Felix risiede nella natura completamente umana dei problemi che affronta e dei suoi modi di risolverli. È un gatto, ma è anche in grado di camminare su due zampe, afferrare oggetti e soprattutto parlare ed essere compreso. Atti rivoluzionari che solo in seguito verranno adottati e normalizzati da altri illustri personaggi (a cui arriveremo fra poco).

Ma non desideriamo soffermarci su Felix solo per questo, altrimenti sarebbe stato sufficiente menzionare il suo corto di debutto, ovvero Feline Follies del 1919. L’ennesimo punto di interesse nella storia dell’animazione è invece rappresentato da Felix in Hollywood, del 1923. In questo cartone, Felix aiuta un attorucolo da quattro soldi a raggiungere Hollywood, prima di considerare che con la sua bravura potrebbe tentare egli stesso un’audizione.

Ed è qui che inizia il bello. Nel suo vagabondare per i fittizi Static Studios, Felix incontra numerose star realmente esistite all’epoca della produzione, di cui i più famosi sono Douglas Fairbanks e Cecil B. DeMille. Era la prima volta che apparivano caricature animate di personaggi famosi; un’usanza portata avanti in futuro dai Disney Studios e divenuta ormai la consuetudine in serie come I Simpson o I Griffin.

Il momento più alto viene raggiunto quando Felix, cercando di convincere un casting director, si produce in una perfetta imitazione di Charlie Chaplin. Il quale, per sfortuna del gatto, si trova nella stanza accanto. Appena i due si incrociano, infatti, il comico muto perde subito la pazienza e mette in fuga definitivamente Felix. La scena è ancora più divertente se si è a conoscenza del fatto che Otto Messmer era il disegnatore ufficiale dell’adattamento animato di Charlie Chaplin, e aveva davvero dato a Felix i modi di fare di Charlot.

L’influenza di Felix è ancora percepibile nel mondo moderno. In quanto primo personaggio animato oggetto di merchandising, non è troppo difficile trovare magliette o altri oggetti con raffigurato il felino. Ha inoltre direttamente ispirato molte opere oggi in voga, prime fra tutte Bendy and the Ink Machine e Cuphead. Grazie a questo curriculum apparentemente illimitato, ci è sembrato davvero il minimo assicurargli un posto d’onore nel nostro articolo sulla storia dell’animazione.

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Benvenuta, Alice (Alice’s Wonderland, 1923)

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Diciamoci la verità: in questo nostro viaggio si comincia a sentire l’assenza di un certo Walt Disney. Un così famoso cineasta, il cui impero animato guadagna tuttora milioni sonanti, non ha lasciato alcun segno nella storia dell’animazione? Pazienza, amici.

Come tutti gli artisti, anzi, tutti gli esseri umani con qualsivoglia lavoro, Walt Disney ha pur dovuto iniziare da qualche parte. A molti potrebbe venire alla mente Oswald il Coniglio Fortunato, sicuri di conoscere le origini del mito. Fuochino! Perché, infatti, esiste qualcosa di ancora precedente a Oswald e, ovviamente, a Mickey: stiamo parlando delle Alice Comedies. Probabilmente, questo nome non vi ricorda nulla. Non si tratta infatti di opere celebri, ma piuttosto gemme nascoste per appassionati del settore.

Walt era sempre stato carico di entusiasmo e spirito di iniziativa verso i mezzi espressivi animati, allora ancora una novità. I suoi primi giovanili tentativi di farsi strada a spallate nel mondo dello spettacolo e dell’animazione furono i Laugh-O-Grams, brevi corti didattici o pubblicitari, ma di certo non d’intrattenimento. Gli affari erano però costantemente sull’orlo del tracollo, e l’ultima spiaggia si presentò sottoforma di dentista. Un medico commissionò a Disney e i suoi collaboratori (tra cui le leggende Ub Iwerks e Friz Freleng) uno spot per la sua clinica ortodontica, che fruttò al gruppo $500. Invece di estinguere i debiti, però, il visionario e folle Walt finanziò un corto sperimentale da mostrare a eventuali produttori, chiamato Alice’s Wonderland. Era il 1923.

L’idea per questo cortometraggio proveniva da una serie di corti animati di Max Fleischer, Out of the Inkwell, che vedevano l’animatore in live-action disegnare il personaggio su un foglio di fronte a sé e quindi interagirci. L’unione tra attori reali e animazione è definita tecnica mista, e all’epoca del Walt ventenne non mancava mai di affascinare gli spettatori. Ma, nonostante i Fleischer Studios fossero una realtà affermata e i Laugh-O-Grams un progetto prossimo al fallimento, Disney decise di aggiungere ulteriore pepe al mix. Invece di portare i cartoni animati nel mondo reale, egli decise di portare un umano nel mondo animato.

Il risultato fu assolutamente inarrivabile, per l’anno e i mezzi in cui è stato raggiunto. La piccola Alice, accompagnata da un inedito Walt senza baffi, visita uno straordinario paese delle meraviglie in cui tutto è fatto con tratti di matita, e viene accolta con gran trionfo dai suoi abitanti animati. Si tratta indubbiamente di un cartone realizzato per un target infantile, ma sotto i nostri occhi si sta in ogni caso scrivendo la storia dell’animazione. Di lì a poco, infatti, il destino sballotterà Walt da una sfortuna all’altra, prima di farlo approdare a…

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Topolino fischietta sul suo vaporetto (Steamboat Willie, 1928)

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La scena più iconica nella storia dell’animazione appartiene quasi sicuramente a questo corto, Steamboat Willie, del 1928. Esso è nato dalle ceneri dei precedenti impegni di Walt Disney, in particolare dal colpo basso che gli ha portato via Oswald. Alla ricerca di un nuovo volto per i loro sogni, e desiderando contrapporre la loro creazione all’onnipresente Felix the Cat, Walt Disney e Ub Iwerks diedero alla luce Mickey Mouse, o Topolino nel Bel paese.

Contrariamente alla credenza popolare, Steamboat Willie non è la prima apparizione del celebre topo. Il primo corto in cui Mickey inizialmente compare è infatti Plane Crazy, dello stesso anno, realizzato in un garage dal solo Iwerks all’inconcepibile ritmo di 700 disegni al giorno. Ma vi è una radicale differenza tra queste due opere, che potrebbe meglio spiegare la nostra scelta: Steamboat Willie è il primo cartone animato con sonoro sincronizzato.

Proprio così: a distanza di un solo anno dal primo film sonoro della storia del cinema (Il cantante di jazz del 1927), Steamboat Willie affianca all’animazione quella che diverrà da allora in poi la sua più fedele alleata, ovvero la musica. È un miglioramento enorme: i film hanno ora un ritmo più accattivante, sono più memorabili, e anche più facili da animare grazie al tempismo fornito dai brani.

E non dimentichiamoci dei due personaggi che affiancano Topolino: oltre a Minni, che per la prima volta dal suo debutto non ha bisogno di essere salvata, incontriamo uno scanzonato e borioso Pietro Gambadilegno (che però non portava ancora questo nome) impegnato a tiranneggiare sul più piccolo Topolino. I ruoli sono ormai assegnati, ora non resta che lasciare in mano al futuro la loro evoluzione.

A differenza dei due corti di Topolino precedenti, che sono andati e venuti nella quasi indifferenza, Steamboat Willie ha riscosso un fenomenale successo di pubblico. È stato il trampolino di lancio per Mickey Mouse, e di conseguenza per Walt Disney. E sappiamo tutti quali meraviglie Disney è stato in grado di mettere in atto negli anni a venire.

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Cab Calloway è un tricheco (Minnie the Moocher, 1932)

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Ricordate i Fleischer Studios, i primi a sperimentare la tecnica mista e a battere sul tempo Walt Disney? Beh, non è certo stato quello il loro unico merito. Qualche anno dopo, nel 1932, hanno infatti realizzato uno dei cortometraggi tecnicamente e stilisticamente più influenti del decennio, dando a loro insaputa un enorme aiuto al celeberrimo rivale: si tratta di Minnie the Moocher, corto della serie Betty Boop.

Un capitolo a parte andrebbe scritto sulla rivoluzione che la figura di Betty Boop ha portato: primo personaggio femminile esplicitamente sexy, ha dato il via a un nuovo modo di animare le donne e ha partecipato di conseguenza alla genesi di Biancaneve e i sette nani, dal momento che il suo creatore Grim Natwick, nel giro di qualche anno, salterà la sbarra e andrà a lavorare alla Walt Disney Productions. Ma torniamo a Minnie the Moocher.

Il corto si apre con Betty seduta al centro della scena, fra i suoi genitori intenti a rimproverarla. Tutto sembra normale: il padre fa una ramanzina alla ragazza, la madre guarda con occhio di disapprovazione. È nel momento in cui la testa del padre si trasforma letteralmente in un disco rotto che capiamo di non trovarci davanti a un cartone come tutti gli altri. I corti dei Fleischer erano, e restano ancora, conosciuti per le massicce dosi di surrealismo di cui sono impregnati. Surrealismo che si sente perfettamente a casa in un mezzo come l’animazione, che permette di visualizzare qualunque cosa passi per la testa del disegnatore.

Subito dopo, raccogliendo la sfida e la tecnica della Disney, Betty inizia a cantare il brano They Always Pick on Me in maniera diegetica. Al termine dell’esibizione, la fanciulla decide di scappare di casa assieme al suo amico (e fidanzato) Bimbo, un cane. I due, per evitare problemi, si rifugiano in una caverna; ed è qui che, come direbbero in America, all hell breaks loose.

La coppia viene infatti approcciata da una versione animale di Cab Calloway. La leggenda del jazz, di cui era apparsa una clip in live-action esattamente dopo i titoli di testa, si presenta ora nelle vesti di un tricheco e si esibisce nel suo cavallo di battaglia Minnie the Moocher. L’animazione del tricheco è indescrivibilmente fluida, sembra che il cantante si sia davvero trasformato in un pinnipede; merito del rotoscopio, ovverosia la tecnica inventata da Max Fleischer che prevede il ricalco di una pellicola preesistente. Essa permette movimenti e tempi estremamente realistici, a discapito però dell’estro tipico dell’animazione a mano libera.

Il surrealismo dei corti Fleischer ha fornito terreno fertile per l’animazione dagli anni ’50 in poi, e in particolare per il già citato videogioco Cuphead, che riprende direttamente il character design di un gran numero di personaggi; l’ideazione del rotoscopio ha permesso a Biancaneve e i sette nani di essere realizzato, contribuendo suo malgrado al fallimento dei Fleischer Studios; infine, l’assortimento di mostri, scheletri e soprattutto ritmi jazz non può non ricordare ai più attenti lo stile inconfondibile di Tim Burton; per sua stessa ammissione, egli ha preso a piene mani dai cartoon di Betty Boop.

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Paperino al flauto (Il concerto bandistico, 1935)

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Ritorniamo alla House of Mouse per un cortometraggio del 1935, ovvero Il concerto bandistico, anche conosciuto come Fanfara. Precedente di appena due anni al lungometraggio che rappresenterà la grande svolta dei Disney Studios e della storia dell’animazione in generale, questo cartone apparentemente senza infamia né lode introduce numerose pietre miliari.

Per cominciare, assistiamo a un notevole perfezionamento della coesione tra animazione e musica: Il concerto bandistico contiene un medley di numerosi brani di vario genere, dalla classica Ouverture del Guglielmo Tell di Rossini a Turkey in the Straw e The Streets of Cairo. Ma è il modo in cui questi pezzi sono amalgamati e introdotti nella vicenda che rivela una naturalezza infinitamente superiore agli albori del sonoro. Una testimonianza alla genialità del montaggio sonoro di questo cartone potrebbe essere il fatto che Arturo Toscanini, il famoso direttore d’orchestra, andò a vederlo al cinema ben sei volte e invitò Walt Disney a casa sua in Italia.

Non si tratta però solo di questo. Il concerto bandistico è anche il primo cartone della serie Mickey Mouse a essere a colori, e la prima volta che il pubblico vide i suoi beniamini nella loro versione cromaticamente definitiva. Restando sui personaggi, è una delle primissime volte che la Banda Disney è presentata al completo e nello stesso scenario. Da Topolino che svolge il ruolo di leader naturale, alla relazione di dubbia natura tra Pippo, Orazio e Clarabella.

Ma il mattatore che regna incontrastato in questo corto è indubbiamente Paperino, che inizia come venditore ambulante di gelati e riesce a farsi seguire dall’intera banda quando attacca a suonare il suo flauto. È un Donald ai primi passi nel mondo della notorietà, ma il pubblico non riesce a togliergli gli occhi di dosso. Mentre Topolino stava iniziando sempre di più a stabilizzarsi nella sua versione “perfettina” (o comunque molto lontana dallo scavezzacollo dei primi corti), negli scatti d’ira, nella sfortuna e soprattutto nelle piccole soddisfazioni di Paperino gli spettatori vedevano un loro simile.

Alla fine, quando la banda scopre che l’unico rimasto ad ascoltarli dopo l’assalto di un tornado è proprio Paperino, e il papero ricomincia candidamente a suonare il motivetto al flauto, gli lanciano addosso tutti gli strumenti musicali. Ma Paperino continua, ineffabile, e termina la melodia facendo capolino fuori da un bassotuba: era nato il più grande antieroe disneyano.

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Il principe bacia Biancaneve (Biancaneve e i sette nani, 1937)

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Da qui in poi, si esce dall’era della possibilità e si entra nell’era della sperimentazione. Da questo film, infatti, la domanda non sarà più “come posso farlo?” ma “come posso farlo meglio?”. Stiamo parlando ovviamente di Biancaneve e i sette nani, il primo lungometraggio Disney realizzato nel 1937. Realizzato sì, ma tra mille difficoltà, dubbi e soprattutto tentativi.

Come alcuni sapranno, Biancaneve e i sette nani non è il primo lungometraggio animato della storia. L’indubbiamente portentoso primato spetta a El Apóstol del 1917, dell’argentino Quirino Cristiani; tuttavia, si trattava di cutout animation, ovvero una versione dell’animazione a passo uno che prevedeva di fotografare cartoncini ritagliati e creare così l’illusione del movimento. Molto più pratica, ma allo stesso tempo molto meno precisa dell’animazione su celle che si usava ormai da un decennio alla Walt Disney Productions. Che, ricordiamo, si trova negli Stati Uniti, dove l’idea di un intero lungometraggio animato era considerata ai tempi un sogno da illusi.

A cartone animato lungo, naturalmente, corrisponde una trama altrettanto lunga. Trama che non può e non deve contare unicamente su una lunga sfilata di gag comiche; deve invece affiancarsi alla struttura dei film in live-action, con una storia articolata in tre atti. Dopo essersi occupati per lungo tempo di personaggi e corti comici, gli artisti della Disney dovettero rimboccarsi le maniche. E così, per la prima volta, vi furono due protagonisti seri e soprattutto un’antagonista realmente crudele in grado di creare opposizione narrativa e fare tremare, infuriare e piangere gli spettatori.

Quando questi ottimi propositi dovettero uscire dai fogli degli sceneggiatori per trovare posto sul tavolo di un animatore, sorse un altro problema. Come simulare la realtà, come dare l’illusione che quei personaggi soffrissero e avessero delle emozioni? Fu un procedimento naturalmente lungo e graduale, ma si arrivò ad avere delle figure aggraziate e umane, perfette imitazioni di persone vere portate sulla carta (con un piccolo aiutino da parte del rotoscopio dei Fratelli Fleischer). In breve, la prima apparizione dei personaggi dei Classici Disney come siamo abituati a immaginarli tuttora.

Così, dopo aver trascinato il suo pubblico in un tour de force di emozioni, tensione e magia, Walt Disney porta sullo schermo forse una delle scene più belle e toccanti dell’animazione, con Biancaneve addormentata che viene baciata dal suo principe. La fanciulla si risveglia, gli animali alzano la testa, e l’espressione affranta dei sette nani si trasforma in incredula letizia. Un crescendo che oggi diremmo scontato, ma che per il 1937 era un miracolo e una rivoluzione totale.

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Leopold Stokowski stringe la mano di Topolino (Fantasia, 1940)

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Appena tre anni dopo Biancaneve e i sette nani, la Walt Disney Productions rilascia contemporaneamente due film: Pinocchio e Fantasia, quest’ultimo destinato all’immortalità in quanto uno dei migliori film d’animazione mai realizzati nella storia del cinema. Questo è un parere pressoché unanime di critici e pubblico; vedete, Fantasia aveva raggiunto vette mai pensate, e ne aveva costruite altre che l’animazione successiva potesse scalare.

La genesi di Fantasia è da ricercarsi nell’arcinoto segmento L’apprendista stregone, realizzato dapprima come corto della serie Silly Symphonies, che si decise in seguito di inserire in un più vasto lungometraggio per compensare i costi divenuti ormai troppo elevati. Sempre più affascinato dal legame indissolubile tra animazione e musica, Walt Disney decide di votarsi alla sperimentazione e affidarsi totalmente alla fantasia. Per realizzare questa sublimazione artistica, incontra il direttore d’orchestra Leopold Stokowski, proponendogli una collaborazione. Il musicista accetta, condividendo con il cineasta l’obiettivo di rendere la musica classica accessibile a un pubblico più vasto.

Inizia così la produzione di quello che potremmo definire un concerto filmato, ovvero un’esperienza audiovisiva dove le immagini e le note si inseguono secondo i dettami della fantasia di animatori e ascoltatori. La principale differenza con un’altra opera musicale targata Disney, Il concerto bandistico, è che la musica è insindacabile: non si può tagliare o rimaneggiare in alcun modo, ergo non può essere adattata all’animazione. È quest’ultima che deve partorire immagini veritiere frutto della pura ispirazione.

Non contento di proporre un concept così visionario, Walt Disney decide di inserire come brano di apertura la Toccata e fuga in re minore di Bach. Accompagnata da figure geometriche e astratte, fu una vera scommessa sulla pazienza e l’apertura mentale del pubblico. Ma l’immagine più emblematica di Fantasia è senza dubbio il breve intermezzo subito dopo L’apprendista stregone di Dukas, in cui le sagome controluce di Mickey Mouse e Leopold Stokowski sono intente a stringersi la mano.

Topolino, a nome del suo creatore Walt Disney, si congratula con Stokowski per avere creduto nell’arte spesso bistrattata dell’animazione; il maestro, a sua volta, ringrazia il topo e il cineasta per avere fornito alla musica un nuovo, e potente, mezzo di diffusione. È un momento simboleggiante un’alleanza che dura ancora oggi.

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Che succede, amico? (Caccia al coniglio, 1940)

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Sono i primi anni ’40, la prosperità della Disney è totale: ha il primato tecnico e commerciale, il grande passo è stato ormai compiuto ai tempi di Biancaneve e i sette nani, e ogni concorrente sembra minaccioso quanto un moscerino sul parabrezza di un camion. I Fleischer Studios? Il loro canto del cigno era stato nel 1939, con I viaggi di Gulliver, vano tentativo di bissare il successo di Biancaneve. Gli studios d’oltreoceano? Quei pochi che non erano ridotti sul lastrico a causa della guerra, non sarebbero stati una minaccia concreta per almeno un ventennio.

Restava tuttavia, negli Stati Uniti, un nome che sembrava non volersi proprio rassegnare a sparire: la Warner Bros. Negli anni ’30, infatti, la casa di produzione si era lanciata all’avventura interessandosi anch’essa all’animazione, creando due serie di cortometraggi denominate rispettivamente Merrie Melodies e Looney Tunes. Queste, con non poca stizza di Walt Disney, che dalla vicenda di Oswald in poi era sempre sull’attenti per intercettare un possibile plagio, prendevano spunto diretto dalle Silly Symphonies.

Tuttavia, c’era qualcosa di radicalmente diverso tra l’approccio della Disney e quello della Warner Bros. Nei cartoni di quest’ultima, infatti, non usciva vincitore il “buono”: ad avere la meglio era invece il più furbo, disinvolto e, in una parola, scorretto. L’innocentino buono come il pane, nelle Merrie Melodies, sarebbe stato inevitabilmente battuto e umiliato.

Questa tattica non venne impiegata fin da subito, però. E, a riprova della sua futura efficacia, basti sapere che per tutti gli anni ’30 il dipartimento animato della WB aveva boccheggiato, nonostante i contributi di molti miti del mestiere quali Friz Freleng e Tex Avery. La svolta giunse nel 1940, con il cortometraggio Caccia al coniglio diretto da Avery, dove un personaggio familiare e pacioccone come Taddeo va a caccia di conigli con la sua fida doppietta. Ma non incontra un coniglio qualsiasi.

Minacciato con il fucile, il coniglio continua tranquillo a rosicchiare la sua carota, emblema della nonchalance, degnando il cacciatore di tre parole che sarebbero rimaste nella cultura popolare: «Che succede, amico?» o, in inglese: «What’s up, Doc?»

Ispirato alla parlantina di Groucho Marx, questo coniglio, chiamato Bugs Bunny, darà inizio a una serie di amate canaglie targate WB, che ben presto contrapporranno la casa di produzione alla Disney fino a trasformarla in sua iconica rivale. E a volte, in mezzo a tanti felici e contenti, i cattivi ragazzi Warner sono una vera boccata d’aria.

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Filippo affronta Malefica trasformata in drago (La bella addormentata nel bosco, 1959)

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Compiamo un salto in avanti di quasi vent’anni, ma senza ignorare gli avvenimenti che si sono succeduti attraverso gli anni nella House of Mouse: scioperi, licenziamenti e guerre mondiali. Il periodo d’oro iniziato con Biancaneve e i sette nani era stato troncato prematuramente con Bambi del 1942, dando inizio alla cosiddetta epoca d’argento; una serie di lungometraggi che, per quanto iconici e amati, sono senza infamia né lode a livello di innovazione tecnica.

Ma soffiava vento di cambiamenti nella California del 1959. Walt Disney era rimasto lo sperimentatore insaziabile dei tempi di Alice’s Wonderland, e decise di cambiare nuovamente rotta e tentare qualcosa di completamente nuovo: un film animato alla maniera di un arazzo, La bella addormentata nel bosco.

Furono abbandonati i canoni più classici e i pilastri considerati più essenziali per un buon successo di pubblico; via le canzoni, i personaggi comici e le gag visive. Via lo slapstick, le rotture della quarta parete e il linguaggio moderno. Tutto ciò che rimaneva erano una fiaba nella sua integrità, numerosi brani di Tchaikovsky e, soprattutto, animazione di religiosa bellezza. Si buttò, figurativamente ed economicamente, fino all’ultima goccia di sangue su questo film, con intervalli di tempo in cui il team creativo fu lasciato praticamente a se stesso a causa dei nuovi fiorenti interessi di Walt. Sembrava la ricetta sicura per un disastro.

E, purtroppo, il disastro avvenne. Flop assoluto e recensioni al vetriolo. Fu a questo punto che Walt Disney disse un definitivo «mai più». Mai più rischi, mai più passioni e speranze riposte in un unico film, mai più volontà di osare, mai più tiri ai dadi con la volubilità del pubblico. In breve: mai più sogni infranti. Da quel momento, la Disney probabilmente perse un pizzico di magia del fare. Fu piantato il primo seme di una mentalità che, dicono alcuni, dura ancora oggi: perché provare qualcosa di nuovo se ci sono formule già brevettate e redditizie?

La scena più tecnicamente incredibile, e anche climax del film, è con ogni probabilità la battaglia finale del principe Filippo contro il drago sputafuoco. Avvolti nelle fiamme, sull’orlo di un precipizio, per la prima volta un drago disneyano rappresenta una vera minaccia e non una fonte di risate. Quando la spada infilza il petto della belva, per la prima volta in un film Disney appare del sangue. Si tratta, senza ombra di dubbio, di uno dei più bei canti del cigno mai creati.

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I Flintstones vanno al cinema (I Flintstones, 1960)

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Yabba Dabba Doo! Chi, sentendo nominare I Flintstones, non ricorda la celebre esclamazione di Fred? Spassosa, orecchiabile e ormai entrata nel linguaggio comune. Ma c’è molto, molto di più influente ne I Flintstones oltre a Yabba Dabba Doo. Ci sono ottime probabilità che senza questa serie animata molte altre serie cult di oggi non sarebbero mai esistite. Non ci credete? Continuate a leggere.

Gli studios Hanna-Barbera, degli omonimi William Hanna e Joseph Barbera, avevano ottenuto la popolarità grazie all’immortale serie Tom & Jerry, superando persino i Looney Tunes. Avevano rilasciato in seguito altre serie quali Braccobaldo Show e Ernesto Sparalesto, che nonostante il successo avevano però fallito nell’attrarre un pubblico di età variegata, concentrandosi specialmente sulla fascia dei bambini. I due cineasti decisero ben presto di rimediare alla mancanza, con l’idea di trasferire in animazione un genere che stava man mano prendendo piede in televisione: la sitcom.

Si pensò di creare una famiglia tipica, come appunto comune nelle sitcom dai tempi de La famiglia Addams: dopo aver considerato campagnoli, nativi americani e antichi romani, si decise di ambientare le vicende durante l’Età della Pietra. Protagoniste, le famiglie Flintstone e Rubble. Per chi non se li ricorda, abbiamo i capifamiglia Fred e Barney, le mogli Wilma e Betty, e gli eredi Ciottolina e Bam Bam. Una situazione in cui qualsiasi famiglia guardasse il programma da casa avrebbe senz’altro potuto immedesimarsi.

Ma non finisce qui. Per far fronte all’avvento della televisione, con crescente richiesta di produzioni rapide e senza fallo, si adoperò per la prima volta in modo programmato l’animazione limitata, quella per capirci che lascia immobili i corpi e muove soltanto labbra o braccia. Essa permette una lavorazione infinitamente meno costosa del processo Disney, e rende possibile ultimare l’episodio in tempo per la scadenza settimanale.

I Flintstones è stata dunque la prima serie nella storia dell’animazione a fare uso del format della sitcom, e una delle prime a popolarizzare l’animazione limitata. Senza questa pietra miliare della Hanna-Barbera, capolavori di culto come I Simpsons e I Griffin non ci sarebbero mai pervenuti. E tutto questo trapela fin dalla sigla iniziale, in cui le famiglie Flintstone e Rubble passano la serata a un drive-in, muovendo soltanto le gambe per far funzionare la “macchina” e deliziandoci con la loro comicità tutta anacronismi e surrealismo.

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Supercalifragilistichespiralidoso (Mary Poppins, 1964)

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Negli ultimi anni, sempre più giovani si sono avvicinati al magico mondo di Mary Poppins, la bambinaia fatata che arriva e se ne va quando soffia il vento dell’Est. Merito di Il ritorno di Mary Poppins del 2018 e Saving Mr. Banks del 2013, che hanno riportato in voga i romanzi di Pamela Lyndon Travers ambientati nell’Inghilterra di inizio ventesimo secolo. Tuttavia, questi film hanno utilizzato come trampolino di lancio l’universalmente conosciuto film Mary Poppins, prodotto dalla Walt Disney Productions nel 1964.

Dagli anni ’50 in poi, Walt Disney aveva iniziato a dedicarsi con sempre più insistenza ai film in live-action senza la più pallida ombra di un cartone animato. I più famosi in Italia sono Ventimila leghe sotto i mari del 1954 e Zanna gialla del 1957, ma se ne contano a decine. Il primo in assoluto è stato I racconti dello zio Tom del 1946, che però incorporava ancora elementi animati. L’animazione, dopotutto, era stata il primo amore di Walt fin dagli inizi.

L’evoluzione naturale della vicenda del signor Disney arrivò nel 1964, quando dopo anni di tira e molla con P. L. Travers e sperimentazioni riuscì a portare sullo schermo Mary Poppins: di questo film riportiamo naturalmente una delle sequenze animate, la straordinaria canzone Supercalifragilistichespiralidoso. Qualunque scena nel dipinto di Bert avrebbe meritato la posizione, ma per la naturalezza e l’entusiasmo questa esibizione di Julie Andrews e Dick Van Dyke circondati dai pearlies (suonatori tradizionali degli ippodromi inglesi) è una spanna più in su.

Per aver reso definitivamente popolari i live-action Disney, che avrebbero preso piede in particolare nei nostri anni 2000, e avendo coronato la carriera di uno degli uomini più grandi della storia dell’animazione, Mary Poppins resta indubbiamente nei nostri cuori e, di conseguenza, nella memoria collettiva.

Walt Disney partecipò personalmente alla serata di gala per il debutto di Mary Poppins, cosa che non faceva dai tempi di Biancaneve e i sette nani (era nel privato un uomo dall’autostima molto bassa, e vedere le reazioni del pubblico di persona gli trasmetteva una comprensibile ansia). Anche qui, come nel 1937, la platea era stipata di celebrità desiderose di vedere la nuova follia di Disney. A differenza de La bella addormentata nel bosco, questa fece istantaneamente il botto, con estrema felicità di Walt. Il cineasta sarebbe morto due anni più tardi, ammettendo che la sua canzone preferita sarebbe sempre stata Feed the birds (in italiano Sempre, sempre, sempre).

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La sigla (Le avventure di Lupin III, 1971)

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È tempo ora (finalmente, si potrebbe dire) di abbandonare l’occidente e spostarci nel Sol Levante dei primi anni ’70. Quale era stata la situazione dell’industria animata nell’ultimo trentennio? Cerchiamo di fare un brevissimo riassunto. Dal 1930 al 1960 l’animazione giapponese era consistita principalmente in cortometraggi propagandistici per l’Impero o in annunci trasmessi in televisione. Unica mirabile eccezione, sempre propagandistica, fu il lungometraggio Momotaro: Sacred Sailors del 1945. Ben magro curriculum, in confronto agli altri continenti: perfino l’Italia, che pure aveva perso la guerra, contava almeno qualche lungometraggio in più.

La rivoluzione avvenne nel 1963 con Osamu Tezuka, considerato ancora oggi il Walt Disney giapponese. Il suo Astro Boy fece da caposaldo dell’intero mondo anime, introducendo concetti di base come la serialità e cose triviali come i classici “occhioni”. Gli fece seguito anche Kimba – Il leone bianco del 1966, amatissimo in patria ma tristemente famoso in occidente solo come il film da cui Il re leone avrebbe preso ispirazione. Si tratta, però, di voci non confermate.

Il punto era che Tezuka era definito il Walt Disney del Giappone per più di un motivo: grande fan del cineasta americano, aveva acquisito anche e soprattutto la sua sensibilità. Di conseguenza, questi primi anime erano spiccatamente orientati a un pubblico di bambini. La concezione stessa di animazione prevedeva proprio questo target, e nessun segno sembrava far presagire un cambiamento. Almeno fino al 1971.

La casa di produzione Tokyo Movie Shinsha ebbe l’idea di adattare in animazione il manga Lupin III dell’autore Monkey Punch, un’opera carica di violenza, erotismo e armi. Il protagonista era un antieroe in piena regola, molestava le ragazze e compiva crimini senza alcuno scrupolo. Supervisionata dapprima da Masaaki Ōsumi, e in seguito da Hayao Miyazaki e Isao Takahata, Le avventure di Lupin III travolse il Giappone in prima serata TV.

Quale scena migliore della sigla, in cui Lupin III in persona fugge dalla polizia mentre i suoi complici freddano la legge tra esplosioni e incidenti d’auto, per rappresentare il nuovo volto dell’animazione giapponese? Era iniziata una nuova era: erano appena nati gli anime come oggi li conosciamo.

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Tsk, cartoni (Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988)

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Facciamo un salto in avanti, e arriviamo a un film così rivoluzionario e tecnicamente ineguagliabile da spaventare perfino il noto regista Terry Gilliam, che si rifiutò di dirigerlo bollandolo come «troppo difficile da realizzare». Decisione di cui si sarebbe pentito amaramente, perché al suo posto subentrò Robert Zemeckis, reduce dal successo di Ritorno al futuro.

Con la lavorazione dai costi più alti mai calcolati fino ad allora per un film d’animazione, Chi ha incastrato Roger Rabbit del 1988 fu concepito con una precisa intenzione. Ovvero salvare l’animazione Disney, che sembrava essere sull’orlo del tracollo dopo il drammatico fallimento di Taron e la pentola magica del 1985. L’impero disneyano ormai prosperava soltanto grazie ai parchi a tema e alle opere in live-action, prodotte dal marchio sottoposto Touchstone Pictures. Quest’ultimo si occupò anche di Chi ha incastrato Roger Rabbit, in cooperazione con la Amblin Entertainment di Steven Spielberg.

Fu proprio Spielberg a selezionare l’animatore fuoriclasse Richard Williams per tenere le redini della parte animata del progetto. Quello che la produzione stava cercando, infatti, erano «l’animazione di alta qualità della Disney, le caratterizzazioni della Warner Bros., e l’umorismo di Tex Avery». Tutti nomi che abbiamo già incontrato durante il nostro viaggio, e che Williams riuscì in qualche modo a rappresentare in contemporanea.

Questo film di culto ha indubbiamente molte sequenze più che memorabili (alcune anche in male, come l’orribile morte della scarpetta per mano del Giudice), ma nulla lascia più a bocca aperta della camminata di Eddie Valiant attraverso gli studios. Il detective, scettico e con un odio inveterato verso qualsiasi creatura fatta di celluloide, cammina sprezzante fra torme di cartoni di ogni forma, anno e dimensione. Esse interagiscono con lui e l’ambiente circostante con una naturalezza quasi inquietante, specialmente rapportata a film precedenti come Mary Poppins.

Chi ha incastrato Roger Rabbit è la definizione perfetta di effetto farfalla. Senza di esso, la Walt Disney Pictures avrebbe smesso di occuparsi di cartoni animati moltissimo tempo fa, e quest’arte sarebbe forse stata dimenticata in Occidente. Il film ha invece salvato la società dal lastrico, permettendole di rimettersi in piedi e dando nuova vita al reparto di animazione che era invece sull’orlo di sgomberare i propri uffici. Tutto questo portando agli estremi le più selvagge aspirazioni di Walt Disney sul futuro della tecnica mista.

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La fermata dell’autobus (Il mio vicino Totoro, 1988)

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Come in Occidente è rimasto nella memoria collettiva Mickey Mouse che fischietta al timone, lo stesso si può dire nell’animazione giapponese per Totoro, Satsuki e Mei fermi ad aspettare l’autobus sotto la pioggia. Perfino le persone che bazzicano poco questo mondo sono in grado di riconoscere l’immagine qui sopra riportata. La grande creatura dei boschi è così celebre da essere divenuta in breve tempo la mascotte e il logo stesso dello Studio Ghibli.

Fondato da Hayao Miyazaki, Isao Takahata, Toshio Suzuki e Yasuyoshi Tokuma, lo Studio Ghibli prende il nome da un aereo della Regia Aeronautica Italiana e rappresenta il vento di cambiamenti e la determinazione. Miyazaki e Takahata, impiegati alla Nippon Animation per cui lavorarono a Heidi e Anna dai capelli rossi, si resero infatti conto ben presto di essere limitati nella loro creatività e nel desiderio di «immergere lo spettatore in profondità nella mente umana, e di trasmettergli in modo realistico le gioie e i dolori della vita».

Così, dopo aver diretto nel 1979 Lupin III – Il castello di Cagliostro per la Tokyo Movie Shinsha, Miyazaki si lanciò a capofitto nel suo secondo lungometraggio Nausicaä della Valle del vento. Purtroppo, lo studio che si occupava dell’animazione di questo film fallì poco tempo dopo la distribuzione. Dalla necessità di ripartire, e di farlo secondo i propri termini, nacque appunto lo Studio Ghibli.

Grafica tra lo steampunk e il tradizionalismo giapponese, attenzione per la natura e abbattimento delle barriere tra bene e male. Questi gli ingredienti principali che caratterizzano i film di Hayao Miyazaki, portabandiera dello studio. Ma non bisogna dimenticare l’importanza dell’innocenza e dell’infanzia, tema presente proprio in Il mio vicino Totoro del 1988. In esso, un film semplice e familiare senza alcun antagonista, solo le due bimbe sono in grado di vedere lo spirito della foresta Totoro. Egli non si presenta in tutta la potenza che si converrebbe a una creatura soprannaturale, bensì coperto da una fogliolina per non bagnarsi mentre attende l’autobus. Il silenzio è indubbiamente ciò che fa la scena.

Nonostante siano tuttora fra le pietre miliari della storia dell’animazione giapponese e non, i primi film di Hayao Miyazaki e Isao Takahata non furono un successo al botteghino, né furono molto conosciuti oltreoceano (gli adattamenti, specialmente americani, avevano la fama di stravolgerne il senso). Bisognerà attendere il nostro prossimo film perché la cultura nipponica invada, una volta e per tutte, il resto del mondo.

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L’inseguimento in moto (Akira, 1988)

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È stato spesso definito «il film che cambiò tutto». Mai erano state usate parole così solenni per un film d’animazione successivo agli anni ’50, eppure il capolavoro del 1988 di Katsuhiro Ōtomo, Akira, si è indubbiamente meritato a pieni voti l’appellativo. Vi invitiamo, molto semplicemente, a fare una breve tappa su YouTube e vedere la scena che vi proponiamo con i vostri occhi. Fatto?

La prima cosa che avrete notato, quasi sicuramente, è la radicale differenza di qualità rispetto a un qualsiasi anime uscito negli stessi anni. È assente la caratteristica tipicamente giapponese di mantenere fermi i corpi dei personaggi e far muovere solo la bocca. I bellissimi fondali ed effetti luminosi dominano la scena, e l’animazione è troppo, troppo fluida per un anime, resa con 24 fotogrammi al secondo (per un film Disney, ad esempio, se ne disegnano “solo” 12).

Ad Akira lavorarono cinquanta diversi studios d’animazione, di cui cinque a occuparsi unicamente degli sfondi, per un totale di 1300 animatori distribuiti in modo da coprire turni di ventiquattro ore. Il costo totale del film fu di ¥1,1 miliardi, la cifra più alta mai stanziata per un anime fino ad allora. Sarebbe stato superato l’anno seguente da Kiki – Consegne a domicilio di Hayao Miyazaki.

Le influenze di Akira sull’animazione giapponese sono infinite: da Ghost in the Shell a Neon Genesis Evangelion. Ma ancora più mastodontico è stato il suo impatto sulla cultura popolare e sul modo in cui gli anime sono tuttora percepiti nel mondo occidentale: prima di Akira, l’animazione giapponese era virtualmente sconosciuta negli USA. Non solo: nella stragrande maggioranza dei casi il target dei film d’animazione era quello infantile. Dopo l’uscita di Akira, un film le cui tematiche erano temute perfino da Steven Spielberg e George Lucas (che credevano inconcepibile un suo attecchimento negli States), la sua popolarità aumentò in maniera così galoppante da far circolare un gran numero di VHS pirata nei college.

I giovani americani volevano ancora di questo gusto mai provato prima, di questa maturità di temi e immagini che da allora in poi inizierà a fluire ininterrotta dal Giappone, nuovo centro culturale dell’animazione. Hollywood stessa è ancora innamorata di Akira, e da decenni cerca di produrne un remake in live-action. Che si speri il progetto riesca, o gli si augurino le peggiori maledizioni, dipende solo da noi.

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La sigla (Batman: The Animated Series, 1992)

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Nonostante la popolarità della trilogia di Christopher Nolan, quando si pensa a Batman vengono subito in mente le note del celeberrimo tema musicale di Danny Elfman. Tema che risuona, assordante, nella storica sigla iniziale di Batman: The Animated Series del 1992: una serie che rivoluzionò il mondo degli adattamenti fumettistici e dei gusti televisivi per sempre.

Creata da Bruce Timm e Eric Radomski, la serie targata Warner Bros. fu per molti bambini una vera e propria iniziazione, non solo al noto supereroe ma anche a cose ben meno piacevoli: violenza, malvagità, follia e morte. Ma come sono riusciti a far passare tutto questo materiale sotto gli occhi notoriamente severi dei censori americani? Con pochi accorgimenti, e qualche battaglia persa, gli sceneggiatori Paul Dini e Michael Reeves hanno trasportato il mondo cupo dei fumetti in TV il sabato mattina.

Partiamo dall’aspetto visivo: questa serie d’animazione ha ideato lo stile chiamato Dark Deco, che prevede colori chiari su carta scura. Questo creò un look distintivo tipico dei comics ma anche delle storie noir degli anni ’40, da cui la serie prende ispirazione a piene mani. Altre ispirazioni provengono dal Batman di Tim Burton, uscito appena tre anni prima.

Ma sono le tematiche narrative a rappresentare un unicum nella storia della televisione. Dipendenza da stupefacenti, malattie mentali, molestie sessuali, per non parlare del gravoso e profondissimo senso di colpa del protagonista. Travestito da intrattenimento del week-end, vi era dentro un atlante di ogni aspetto orribile della vita, ma anche la ricetta di come superarlo e uscire dalle proprie ceneri come uomini nuovi.

E tutto ciò traspare già dai momenti iniziali, muti, accompagnati solo dall’orchestra piena di speranza e al contempo nera come la pece. I grattacieli si stagliano sul cielo rosso, il Cavaliere Oscuro fa la sua apparizione. E quando un fulmine ne illumina la sagoma, l’immagine entra finalmente nella storia.

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Questo è Halloween (Nightmare Before Christmas, 1993)

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La stop-motion, o passo uno, si potrebbe considerare l’estremizzazione dell’idea di cinema. Il video altro non è che un flusso di foto scattate a brevissimi intervalli di tempo; ebbene, si sta lavorando in stop-motion quando, tra una foto e l’altra, intercorre una pausa. Pausa che può essere utilizzata per manipolare a proprio piacimento i soggetti filmati. Nello specifico dell’animazione, lavorando con pupazzi e burattini, muovendo leggermente i personaggi di fotogramma in fotogramma si crea l’illusione del movimento.

Nonostante il successo e la meraviglia che questa tecnica ha dapprima suscitato, è stata in seguito accantonata e utilizzata quasi esclusivamente come supporto per film in live-action. Solo pochi artisti, in particolare provenienti dall’Europa dell’Est, si sono cimentati in film d’animazione interamente in stop-motion; ma certamente non una multinazionale come la Walt Disney Pictures, che aveva ben pochi rischi da correre in alcuni periodi della sua vita.

Tutto cambiò nel 1982, quando un giovane artista concettuale di nome Tim Burton ottenne i fondi per realizzare Vincent: un macabro e fiabesco cortometraggio a passo uno divenuto al giorno d’oggi un piccolo cult. Questo breve progetto, e il futuro successo di Burton, faranno in modo che la Disney dia abbastanza fiducia al cineasta da realizzare nel 1993 Nightmare Before Christmas, diretto da Henry Selick e destinato anch’esso allo status di culto.

Nato come esperimento assoluto, Nightmare Before Christmas sarebbe divenuto un imprescindibile classico delle feste e una delle maggiori fonti di merchandising dell’impero Disney. Tutto ciò oltre a essere uno dei film in stop-motion di maggiore incasso nella storia del cinema (tutti gli altri gli sono succeduti, a testimoniare la sua importanza). Tra tutte le scene magistralmente realizzate, vogliamo ricordarlo con la sequenza di apertura Questo è Halloween.

In un efficace connubio tra passo uno e animazione tradizionale, il Paese di Halloween è trasportato fuori dalle fiabesche illustrazioni di Tim Burton. L’intera città con i suoi abitanti prende vita, e Jack Skeletron con i suoi lunghi arti si muove in maniera perfettamente simile a un ragno. Non vi sono dubbi che questo lungometraggio, ormai quasi trentenne, sia invecchiato più che bene.

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Ricordati chi sei (Il re leone, 1994)

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Come abbiamo già visto, la Walt Disney Pictures di fine anni ’80 era totalmente allo sbando: reduce dal clamoroso insuccesso di Taron e la pentola magica, trovò la sua salvezza in Chi ha incastrato Roger Rabbit, che infuse nuova speranza nei cuori del reparto d’animazione. La redenzione definitiva si ebbe con La sirenetta del 1989, film che impose un nuovo standard per i lungometraggi a venire e diede il via al periodo noto come Rinascimento Disney.

Lo stampo creato da La sirenetta, che sarebbe stato imprescindibile per ogni film d’animazione occidentale, aveva un’enorme influenza dai musical di Broadway: protagonisti empatici, numeri comici, e conflitto principalmente nella parte finale (priva di brani, così da non distogliere l’attenzione dal pathos). Ma mentre il film del 1989 fu il capostipite, l’esponente più illustre del Rinascimento Disney fu probabilmente Il re leone del 1994.

Primo film della Disney con una trama totalmente originale (benché chiare le influenze shakespeariane), Il re leone si avvale di animazioni di prim’ordine con protagonisti non antropomorfi. La colonna sonora è curata da Hans Zimmer, con canzoni composte da Elton John. È al giorno d’oggi un film di culto, e ciò è testimoniato dal successo al box office riscosso dal suo remake. Ma l’originale non è stato da meno, restando il film in animazione tradizionale più proficuo della storia.

La parabola ascendente che la Disney è riuscita a raggiungere a meno di dieci anni da quello che sembrava il suo fallimento è perfettamente rappresentata dalla storia di Simba, che avrebbe potuto rassegnarsi e invece contro ogni previsione è tornato a riprendersi il regno. Molte sono le scene da brividi di questo cartone.

Quella che viene però ricordata con più affetto, anche per merito del grande Vittorio Gassman doppiatore di Mufasa, è l’incontro tra padre e figlio verso la seconda parte del film, che ci gela ogni volta con la sua melodia e intensità fuori discussione. Ogni altro commento sarebbe superfluo.

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Un amico in me (Toy Story, 1995)

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Siamo arrivati alla fine del nostro viaggio attraverso più di cento anni di storia dell’animazione, che abbiamo provato per quanto possibile a riassumere in un’unica tranche. Terminiamo l’avventura con un film vivido nella memoria di molti ventenni e trentenni, che forse più degli altri ha lasciato un’impronta ancora fresca nell’animazione odierna. Stiamo parlando di Toy Story, del 1995, diretto da John Lasseter.

Membro fondatore della Pixar, Lasseter realizzò nel 1984 per la LucasFilm Le avventure di André & Wally B., il primo cortometraggio in CGI mai prodotto. Ispirato dalla sequenza iniziale del film Tron, il regista desiderava spingere i limiti di ciò che fosse possibile fare con il nuovo mezzo. Quando il prezzo e le performance dei computer da rendering furono adeguati, raggiunto un accordo finanziario con Disney (molto a fatica), ne ebbe finalmente l’occasione.

Sceneggiato inizialmente come la storia dell’incontro tra un giocattolo buono e uno malvagio, il film divenne col passare del tempo una buddy comedy a tutti gli effetti. I protagonisti, Woody e Buzz, hanno caratteri agli antipodi. Dovranno imparare ad andare d’accordo per ritrovare il loro padroncino e sfuggire ai mille pericoli che l’ambiente presenta per un giocattolo.

Conoscendo le peripezie affrontate dai Pixar Animation Studios, e soprattutto dopo aver visto il primitivo cortometraggio del 1984, pare incredibile assistere alla scena d’apertura di Toy Story e vedere quanti e quali progressi si sono fatti. Accompagnati dalla calda voce di Riccardo Cocciante che intona la pacata e familiare Un amico in me, assistiamo a una storia di piccole cose e piccoli gesti, che però riescono alla fine dei conti a diventare grandi come giganti.

È dunque tutto in discesa dopo Toy Story? Il futuro non riserva più alcun segreto per l’animazione? Questo mai. Non ci risulta che l’arte si sia mai fermata, da quando i nostri antenati incidevano sagome di animali sulla roccia. Essa si trasformerà, arretrerà, andrà avanti, diverrà qualcosa di totalmente diverso e ci ricorderà i capolavori di una volta; dipende tutto da noi. Perché non occorre dimenticare che ogni film d’animazione è fatto da artisti, uomini e donne con emozioni, sensibilità e difetti. E sono il loro lavoro e la loro anima che vediamo, e continueremo a vedere, sullo schermo.

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Letizia Somma

Immagini © Disney, Warner Bros., Hanna-Barbera, Tokyo Movie Shinsha, Studio Ghibli

Fonti: Il Post, Vulture

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