La colonizzazione dello spazio: una nuova era coloniale?

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Cosa possiamo aspettarci dal futuro? Sopravvivrà l’uomo alle catastrofi che potranno colpire il nostro pianeta e la nostra specie? Quali strumenti abbiamo per garantirci un posto nell’universo, per affrontare ad armi pari il temutissimo lungo periodo?

Per alcuni, le risposte a questi interrogativi implicano necessariamente una colonizzazione dello spazio da parte dell’uomo. Ma cosa comporta davvero l’occupazione di un pianeta alieno? In questo OffTopo cerchiamo di capirne di più, grazie anche ai preziosissimi spunti offerti dal film di animazione Il Pianeta Selvaggio (La Planete Sauvage, 1973).

Il pianeta selvaggio poster
Locandina ufficiale de La Planete Sauvage (1973).

Andare nello spazio per salvare la Terra

L’ormai arcinoto virus SARS-CoV-2 (causa della sindrome cd. Covid-19), ha messo in luce la precarietà della nostra esistenza. Siamo esposti. Il rischio del verificarsi di un evento catastrofico è considerato ormai quale mera possibilità scientifica. E gli ultimi mesi ne sono stati la prova. Per questo, NASA, ESA, scienziati e ricconi vari si sono attivati concretamente per affrontare il problema della sopravvivenza dell’uomo nel lungo periodo.

Tra le varie proposte, emergono quelle avanzate da Jeff Bezos e da Elon Musk. Per entrambi, lo spazio rappresenta la nuova terra promessa, sebbene in modi diversi. Per Bezos, CEO di Amazon e BlueOrigin, il punto di partenza è dato da una circostanza di fatto: la Terra è destinata a esaurire le proprie risorse. Egli crede, quindi, che la strada migliore sia quella di affidarsi alla colonizzazione di altri pianeti (o satelliti) al fine di estrarre da essi le risorse necessarie per la nostra sussistenza. Cercare quindi di risolvere i problemi della Terra sulla Terra, ma con un aiutino dallo spazio.

Jeff Bezos, Blue Moon
Jeff Bezos davanti al lander lunare “Blue Moon”, di marchio BlueOrigin.

Diversamente, Elon Musk (Tesla; SpaceX) ritiene del tutto prioritario spedire l’uomo sul Pianeta Rosso e dare il via alla fondazione di colonie autosufficienti. Nella visione di Musk, solo in questo modo potremmo avere qualche possibilità di sopravvivere alle devastazioni a cui andrà in contro la Terra. Non si tratta di accaparrarsi nuove e maggiori risorse. Non è la ricerca di un piano b, ma di un pianeta b.

Le critiche

Entrambe queste posizioni sono state grandemente criticate. L’idea di andare nello spazio per salvare la terra appare viziata sotto più punti di vista. Se la prospettiva di Bezos può sembrare – in apparenza – condivisibile, essa tuttavia cela un problema insidioso: è davvero opportuno affidarsi all’imperialismo interplanetario (così viene chiamato da Joon Yun, fisico statunitense) per risolvere problemi causati, sulla Terra, dallo stesso imperialismo?

«Dopotutto» dice Yun, «il gioco a somma zero di esportare i problemi su terre lontane e di estrarre – da queste – risorse, è vecchio come la storia dell’imperialismo». Va osservato, peraltro, che i progetti di Bezos non comprendono esclusivamente l’estrazione di risorse da luoghi extraterrestri. Egli mira anche a creare delle vere e proprie “zone industriali spaziali”, nelle quali trasferire le industrie più inquinanti (attualmente operanti sulla Terra).

Continua ancora Yun: «nel cercare di risolvere l’inquinamento terrestre inquinando altri pianeti, noi stiamo semplicemente perpetuando lo stesso problema». Sarebbe quindi opportuno investire denaro in altri progetti, diretti a ripensare il consumismo in ottica sostenibile. Il che, detto così, può sembrare ossimorico, ma sicuramente meno complicato di andare su Marte!

Su altro versante, anche Elon Musk si è preso la sua dose di critiche. Il progetto di salvare la specie umana creando una colonia autosufficiente sul Pianeta Rosso è parsa, a molti, estremamente elitaria. Non si tratta di salvare l’umanità, ma solamente lo 0,14% di essa. Le colonie prospettate da Musk, infatti, dovrebbero aggirarsi intorno al milione di abitanti complessivi perché si possa parlare di colonia autosufficiente (contro i quasi 8 miliardi nel nostro pianeta). Per non parlare poi delle difficoltà di un viaggio del genere, della durata di molti mesi in condizioni di microgravità sotto un bombardamento continuo di radiazioni cosmiche.

Forse il gioco non vale la candela. Forse è vero che si tratta di uno spreco indicibile di denaro e, anche, dell’ultima occasione che abbiamo per invertire il trend. Ogni anno, la Terra è sempre più calda. I ghiacci perenni si sciolgono, con essi il permafrost, liberando ingenti quantità di CO2 nell’atmosfera. Il cambiamento climatico non è più un problema da sottovalutare.

Sta di fatto che, al di là delle critiche, Musk e Bezos porteranno a fondo i loro progetti. Non c’è dubbio. Starship atterrerà su Marte. Blue Moon si insedierà sulla Luna. E il progresso continuerà imperterrito, come una fiumana inarrestabile. D’altronde, è la nuova era delle prime volte e, come cantano nel musical Hairspray, «you can’t stop the beat!».

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Solo a titolo esemplificativo: lo scorso 19 aprile, il drone Ingenuity ha spiccato il volo per la prima volta dal suolo marziano. Intanto, attorno alla Terra orbita la Stazione Spaziale Internazionale (SSI) con attaccata la capsula di casa Musk Crew Dragon Endeavour, che ci ha mostrato in diretta la procedura di attracco (cd. docking). Al di là della fascia degli asteroidi, la sonda Juno continua a inviarci foto spettacolari di Giove; il tutto mentre Voyager 1 si spinge oltre Nettuno e Plutone, oltrepassando l’eliopausa ed entrando a tutti gli effetti nello spazio interstellare.

Il primo volo del drone Ingenuity, decollato lo scorso 19 aprile dal suolo marziano… per la prima volta nella storia!

La colonizzazione dello spazio

L’aspetto più importante di questa nuova spinta colonialistica sta nelle motivazioni: la colonizzazione dello spazio pare essere una necessità imprescindibile per la sopravvivenza dell’uomo. A detta di Elon Musk, padron di Tesla e SpaceX, è fondamentale che l’uomo diventi «una civiltà spaziale e una specie multi-planetaria». Altrimenti, come già profetizzato dal cosmologo Stephen Hawking, l’esito più probabile sarà l’estinzione umana nel giro di circa 200 anni.

Ma non c’è da spaventarsi, dice Martin J. Rees. L’astronomo britannico è ben consapevole che la vita sulla terra costituisca per sua stessa natura una variabile transitoria. E che la vita umana, ancora di più, rappresenti solo una minima parte del quadro complessivo. Egli, infatti, trova «difficilmente credibile» che la vita umana sia il culmine dell’evoluzione, come molti pensano. E ciò appare ancora più evidente se si considera che non siamo nemmeno a metà del ciclo vitale del nostro Sistema Solare, destinato comunque a collassare tra circa 8 miliardi di anni.

Storia della vita sulla terra
Linea del tempo raffigurante la storia della vita sulla Terra.
Storia della vita del sistema solare
Linea del tempo raffigurante la storia del Sistema Solare.

Tuttavia, continua Lord Rees, «questo secolo è speciale: è il primo in cui una specie – la nostra – è così dominante e potente da avere il proprio futuro nelle proprie mani». Ed inoltre, «questo secolo è il primo in cui una specie ha i mezzi per espandersi oltre il proprio pianeta». E questa, per molti, pare proprio essere la priorità.

Già nel 2016, in occasione dell’annuale Congresso Astronautico Internazionale (IAC), Elon Musk aveva dichiarato che «se le cose vanno super bene» ci sarebbero voluti circa 10 anni per portare l’uomo su Marte (2026, quindi). E ad oggi, le cose sembrano andare proprio super bene.

In una recente intervista con Peter Diamandis, fondatore di Xprize, Musk ha confermato la propria intenzione di portare un equipaggio umano sul Pianeta Rosso. Secondo il CEO di SpaceX, si tratterebbe comunque di un viaggio pericolosissimo, nel quale molte persone potranno morire o non essere in grado di tornare a casa. Tuttavia, afferma Musk, sarebbe comunque «un’avventura gloriosa».

Ancora più recente è invece la notizia della pubblicazione del primo piano di volo di Starship. La navicella di casa Musk, destinata a portare l’uomo su Marte, è attualmente in piena fase di prototipazione e ancora non sappiamo quando avverrà il primo volo. Quello che sappiamo, però, è che avverrà. E, soprattutto, con che modalità!

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Marte è sempre meno lontana, questo è certo. Non stiamo più parlando in termini astratti, non è più fantascienza: è realtà. Per questo ci chiediamo cosa succederà dopo. Il 2026 è sempre più vicino, e la colonizzazione di Marte è sempre più attuale. Ha senso parlare di colonizzazione? Quale bagaglio porta con sé un termine del genere? E anche volendo fare più attenzione alla linguistica, la sostanza può davvero cambiare?

Una nuova era coloniale?

Secondo Bill Nye, il Science Guy della tv statunitense, è più opportuno parlare di insediamento (in inglese settlement), piuttosto che di colonizzazione. Infatti, la scelta di un vocabolario (per così dire[1]) neutro può essere fonte di benefici concreti. Tra questi, il più rilevante pare essere la determinazione di un mindset orientato ad un’esplorazione dello spazio responsabile e sostenibile.

In un interessante pezzo di Caroline Haskins per The Outline, la questione viene sviscerata più a fondo. La linguistica non è mai la causa, ma una delle conseguenze. Il sintomo, in qualche modo, di un problema ben radicato: di un vizio sistemico. L’idea degli astronauti quali colonizzatori, quali moderni conquistadores, risultava già dal celebre Moon Speech, tenuto dal Presidente Kennedy nel 1962. «Scegliamo di andare sulla Luna», diceva Kennedy. Ma non solo.

Kennedy: «scegliamo di andare sulla luna».
John F. Kennedy durante il Moon Speech. Rice Stadium, Houston (1962).

«Questo paese è stato conquistato da coloro che guardarono avanti, e così sarà lo spazio».

J. F. Kennedy

Si tratta, osserva Haskins, del perpetuarsi di una mitologia fallace. L’idea che gli Stati Uniti d’America siano stati fondati da esploratori valorosi, portatori di progresso e di civiltà, è dura a morire. La realtà, continua Haskins, è che gli Stati Uniti d’America furono il risultato di stermini, massacri e devastazioni. Questo fu il colonialismo. Pura violenza. E l’idea che la medesima mentalità sia stata alla base dell’esplorazione spaziale degli anni ’60 è triste, per non dire altro.

Perciò, alcuni sono dell’idea che sia meglio liberarci di termini quali colonizzazione, colonia, conquista. Affrontare lo spazio extraterrestre con un approccio nuovo può essere determinante per non riproporre, su altri pianeti, i medesimi schemi che hanno segnato i momenti più bui della nostra storia.

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Tuttavia, ci chiediamo anche se la scelta di usufruire di un “linguaggio neutro” (settlement, come suggerito da Nye), possa davvero incidere positivamente sulla sostanza delle cose. Anche accettando di parlare in termini di insediamento dell’uomo su Marte (piuttosto che di colonizzazione), il punto resta sempre lo stesso: l’occupazione di un nuovo territorio implica necessariamente un atto di violenza. Ciò è inevitabile. E questo potrebbe essere sufficiente per parlare, in senso proprio, di colonialismo interplanetario.

Un atto di violenza, questo, che troverebbe la sua massima esplicazione se venisse trovata la vita su Marte. Il che permetterebbe al colonialismo di esplodere nuovamente: di manifestare appieno l’orrore che lo contraddistingue.

Il Pianeta Selvaggio (1973)

«Is there life on Mars?»

Nel 1971 David Bowie si chiedeva se ci fosse vita su Marte. Due anni dopo, venne premiato a Cannes un film francese che bypassava la domanda, chiedendosi ben altro: c’è posto per l’uomo fuori dalla Terra? Stiamo parlando de Il Pianeta Selvaggio (La Planete Sauvage, 1973), lungometraggio di animazione[2] diretto da René Laloux e disegnato da Roland Topor. Qui il film completo.

Maestro Simon, Il Pianeta Selvaggio, colonizzazione dello spazio
Maestro Simon, sovrano dei Draags (i Draags sono gli abitanti del pianeta Ygam, nel quale è ambientata la storia).

Tratto dal romanzo breve Oms en Série (1957) di Stefan Wul, Il Pianeta Selvaggio racconta la storia di Terr, un umano domestico che riesce a scappare dal controllo dei Draags, degli alieni giganti con la pelle blu. Durante la sua fuga, egli riesce a rubare e a portare con sé un induttore di conoscenza (una specie di cerchietto per capelli, che i Draags utilizzavano per istruirsi). Un po’ come il monolite di Kubrick… solo un po’ più maneggevole!

Tiwa, Il Pianeta Selvaggio.
Tiwa, figlio del Maestro Simon, con indosso l’induttore di conoscenza (nell’immagine, rappresentato come un cerchietto per capelli di colore giallo).

Unitosi a una tribù di uomini selvaggi, Terr diventa il fulcro della rivoluzione degli uomini, che riuscirà, nel giro di 15 anni, a rovesciare il dominio dei Draags e a conquistare la propria indipendenza.

Rapporto tra due specie intelligenti: un possibile esito

L’importanza de Il Pianeta Selvaggio, quale chiave di lettura dell’annunciata colonizzazione di Marte, sta nello scenario che viene presentato. Una specie, più avanzata e intelligente (i Draags), entra in contatto con un’altra specie anch’essa intelligente, sebbene più arretrata (l’uomo). Per quello che ne sappiamo attualmente, Marte dovrebbe essere disabitata. Le numerose tracce di ghiaccio e di acqua, tuttavia, rendono concreta l’ipotesi opposta.

colonizzazione dello spazio
Il cratere Louth, Marte. La macchia bianca al centro dell’immagine è ghiaccio di acqua!

Atterrando su Marte, è possibile quindi che l’uomo s’imbatta in una forma di vita autoctona. O quantomeno, ciò non è a priori escludibile. A questo punto, le alternative sono due: che questa forma di vita sia più sviluppata o meno sviluppata di noi. Il Pianeta Selvaggio ci giunge quindi in aiuto, mostrandoci entrambe le prospettive.

Draag da Il Pianeta Selvaggio. colonizzazione dello spazio

Da un lato, è possibile che l’equipaggio di casa Musk entri a contatto con una specie aliena arretrata. Potrebbe trattarsi di un qualche organismo elementare, composto di una o più cellule; o anche di un essere ben più strutturato a livello biologico, ma comunque privo di un sistema nervoso, privo di coscienza e di intelligenza. In tale ipotesi, saremmo noi a trovarci nelle vesti dei Draags. Ai nostri occhi, l’alieno (arretrato) potrebbe sembrarci più vicino a un animale o a un giocattolo.

«Ero solamente un giocattolo vivo che talvolta osava ribellarsi».

Terr, Il Pianeta Selvaggio (1973).

Tuttavia, come viene magistralmente mostrato nel film, la diversità e il senso di superiorità – insieme – diventano fonte di un bias cognitivo difficile da eliminare: la tendenza cioè, ad analizzare il diverso con schemi del tutto nostri, e la conseguente illusione di riuscire a comprenderlo e a prevederne i comportamenti. È il motivo della sconfitta dei Draags. Ed è stato, nella nostra storia più cruda, una delle ragioni dell’abbandono del sud del mondo a sé stesso. Una delle cause della sua stessa solitudine.

«E se queste difficoltà confondono noi, che ne condividiamo l’essenza, non è difficile capire perché i talenti razionali di questa parte del mondo [l’Europa], estasiati nella contemplazione della propria cultura, si siano trovati senza un metodo valido per interpretarci. È comprensibile che insistano nel valutarci con lo stesso metro col quale valutano sé stessi, senza ricordare che le ingiurie della vita non sono uguali per tutti, e che la ricerca dell’identità è difficile e sanguinosa per noi quanto lo è stata per loro. L’interpretazione della nostra realtà con schemi che non ci appartengono contribuisce soltanto a renderci sempre più sconosciuti, sempre meno liberi, sempre più solitari».

Dal discorso tenuto da Gabriel García Márquez, in occasione della cerimonia per la consegna del Premio Nobel per la Letteratura (1982).

Tuttavia, è possibile anche che l’equipaggio della Starship incontri una forma di vita aliena più avanzata. Si potrebbe quindi trovare nella stessa posizione degli uomini de Il Pianeta Selvaggio.

Deumanizzazione, colonizzazione dello spazio
Alcuni Draags intenti a deumanizzare il parco.

Innanzi ai Draags, dei giganti blu di oltre 10 metri di altezza, l’uomo è invisibile. È impotente: incapace di comprendere l’alieno. Viene schiacciato da esso, come si fa con le formiche. Viene sterminato a cadenze regolari, come si fa con gli scarafaggi, in una normale disinfestazione (che prende il nome di deumanizzazione). È un uomo privo della propria identità. Costretto a scappare e a nascondersi per sopravvivere in un mondo che non gli appartiene e che non lo vuole.

Contatto con “l’Altro”: una prospettiva antropologica

Va detto, che l’ipotesi di un contatto con forme di vita extraterrestre è stata considerata come una reale evenienza, e non solo da cosmologi e astrofisici. Anche gli antropologi si sono inseriti nel dibattito. Per loro, il focus non è tanto sul se, ma sul come. Come affrontare un contatto diretto e fisico? Esistono delle pratiche culturali universali alle quali affidarsi?

colonizzazione dello spazio
La dr.ssa Banks (Amy Adams), esperta di linguistica, intenta a decifrare il linguaggio degli alieni-polpo. Da Arrival, regia di Denis Villeneuve (2016).

In uno studio proposto da Moreno Tiziani, presidente dell’associazione Antrocom Onlus, si legge come l’evoluzione suggerisca che vi siano, in effetti, delle costanti universali in grado di trascendere i limiti del nostro pianeta. Il problema, però, è individuarle!

«Se, come dobbiamo presumere, l’evoluzione ha operato con gli stessi meccanismi dovunque si sia sviluppata la vita nell’universo, dobbiamo altresì ammettere che ogni specie abbia sviluppato un’interfaccia percettiva basata sulle particolari condizioni ambientali in cui si è evoluta. Ciò si riflette anche sulla cultura di una specie».

In altre parole, le pratiche culturali di una determinata specie (struttura e valori sociali) sarebbero sempre vincolate alle peculiarità del territorio di origine. L’adattamento, considerato da Tiziani quale costante evolutiva, determinerebbe una pluralità indefinita di pratiche culturali. Ognuna di esse conseguenza dell’ambiente di origine. Ma cosa c’è di universale in tutto questo? Un bel niente? Non proprio.

Non tutto infatti è conseguenza dell’adattamento. Come osservato da Pierre Pica, linguista francese, le analisi condotte sulla popolazione amazzonica dei Munduruku hanno messo in luce la presenza di talune pratiche culturali universali. In particolare, cioè, l’innata tendenza a rappresentare i numeri in forma lineare (lungo una linea). Il che non è per nulla scontato, considerato che per loro non esistono intervalli regolari tra un numero e l’altro.

La matematica, infatti, «da sempre considerata un linguaggio universale in grado di permettere la comunicazione tra specie intelligenti diverse», non è altro che un costrutto culturale. La rappresentazione lineare dei numeri, però, è spontanea: una pratica culturale universale. Eccola finalmente!

Sul punto, peraltro, vale la pena di ricordare anche gli studi condotti da Paul Ekman (il Cal Lightman di Lie to Me) in Papua Nuova Guinea. Secondo lui, esisterebbe infatti un collegamento naturale tra l’emozione provata e i muscoli facciali. Se siamo felici, inarchiamo le labbra verso l’alto. Se siamo tristi, verso il basso, corrucciando le sopracciglia (in questo modo: / \). E così via.

Microespressioni.
Le 6 emozioni primarie e le loro manifestazioni. Da sx a dx, dall’alto verso il basso: rabbia, paura, disgusto, sorpresa, felicità e tristezza.

Ciò, come ha dimostrato Ekman, non è un derivato culturale. La cultura interviene un attimo dopo, mascherando le emozioni. Esse tuttavia vengono manifestate sempre e comunque per almeno 1/25 di secondo… e sempre nello stesso modo! Si parla infatti di microespressioni: la prova ulteriore dell’esistenza di pratiche culturali universali.

Resta il fatto, però, che ciò che potrebbe essere universale per noi umani, potrebbe non esserlo per altre specie intelligenti. Il dibattito è aperto. E forse, l’unica vera conquista in termini antropologici è l’aver individuato una costante universale: l’adattamento, per l’appunto. Sarebbe perseguibile la strada contraria? Partire dall’analisi di territori extraterrestri per poi determinare le possibili forme di adattamento culturale? Lo ribadiamo: il dibattito è aperto.

Alcune considerazioni conclusive

C’è posto per l’uomo fuori dalla Terra?

La prima Legge dell’Areonautica di Krafft Ehricke (1957) recita che «nulla e nessuno, sotto le leggi naturali di questo universo, impone limiti all’uomo, tranne sé stesso». Si tratta, è evidente, di una dichiarazione di principio. Una delle bandiere a sostegno dell’esplorazione spaziale degli anni ’60.

colonizzazione dello spazio
Neil Armstrong sul suolo lunare durante la missione Apollo 11 (1969).

Pensata dall’uomo per l’uomo, essa appare difficilmente in grado di mantenere la propria forza di fronte ad una forma di vita aliena intelligente. Il che, stando alle equazioni proposte da Frank Drake, astronomo e astrofisico statunitense, appare piuttosto probabile. Nella peggiore delle ipotesi, infatti, dovrebbero esserci circa 23,1 civiltà intelligenti nella nostra galassia. Roba da non credere!

Per questo, forse, bisognerebbe andare coi piedi di piombo, dice Stephen Hawking… con cautela! Perché non è detto che una civiltà aliena, in grado di comunicare con noi, sia amichevole. Il nostro passato coloniale ci ha mostrato, peraltro, che la tendenza delle popolazioni più avanzate è quella di colonizzare e schiavizzare quelle più arretrate. Perché non dovrebbe essere lo stesso con una popolazione aliena più avanzata? Siamo pronti a correre questo rischio?

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Ma al di là di questo, quello che più ci preme sottolineare è altro. Andare nello spazio, infrangere i limiti della nostra conoscenza, toccare con mano un suolo extraterrestre: tutto questo fa parte del nostro DNA. Siamo uomini. Siamo un popolo di esploratori. Lo spazio ci sta chiamando e noi non possiamo tirarci indietro.

Tuttavia, l’esplorazione spaziale non può essere la soluzione ai grandi problemi che dovrà affrontare la Terra nei prossimi anni. Gli sforzi per invertire il trend, per creare l’utopia contraria, non possono implicare i medesimi paradigmi che hanno corrotto e lancinato il nostro pianeta. Crediamo, come lo credeva Márquez 39 anni fa, che sia giusto e possibile osare di riconsiderare la nostre abitudini. Di ripensare la nostra realtà. Di rendere concreto un piano b. Perché, checché ne dica Musk, non esiste un pianeta b.

Gabriel García Márquez e Carl Gustaf.
Gabriel García Márquez e il principe svedese Carl Gustaf, durante la consegna del Premio Nobel per la Letteratura, Stoccolma (1982).

«In un giorno come quello di oggi il mio maestro William Faulkner disse in questa sala: “mi rifiuto di ammettere la fine dell’uomo”. Non mi sentirei degno di occupare questo posto che fu suo se non fossi pienamente consapevole che, per la prima volta dall’inizio dell’umanità, il colossale disastro che egli si rifiutava di ammettere trentadue anni fa è ora soltanto una semplice possibilità scientifica.

Di fronte a questa sconvolgente realtà che nel corso di tutto il tempo umano è dovuta sembrare un’utopia, noi inventori di racconti, che crediamo a tutto, ci sentiamo in diritto di credere che non sia troppo tardi per iniziare a creare l’utopia contraria. Una nuova e impetuosa utopia della vita, in cui nessuno possa decidere per gli altri perfino sul modo di morire, dove sia davvero reale l’amore e sia possibile la felicità, e dove le stirpi condannate a cent’anni di solitudine abbiano, finalmente e per sempre, una seconda opportunità sulla terra».

Dal discorso tenuto da Gabriel García Márquez, in occasione della cerimonia per la consegna del Premio Nobel per la Letteratura (1982).

Giacomo Lamonica

Note

  1. È stato osservato (Jesse Singal) come anche il termine “settlement” (insediamento) non possa dirsi del tutto neutro. Esso, viene ormai da molti associato alle attività controverse effettuate del governo israeliano in Cisgiordania e sulle Alture del Golan. Si parla infatti di insediamenti israeliani (israeli settlement), in riferimento alle comunità abitate dagli israeliani nel territorio palestinese. Peraltro, alla luce dei recenti avvenimenti, è da ritenere che il peso di tale termine (settlement) sia notevolmente aumentato.
  2. Il Pianeta Selvaggio (1973) è stato realizzato con la tecnica di animazione cd. cutout animation. Si tratta, in buona sostanza, di uno stop-motion bidimensionale. I soggetti, a differenza dell’animazione classica, non sono ridisegnati per ogni singolo movimento, ma, come dei manichini, vengono posizionati nella posa necessaria. Questa tecnica è stata utilizzata in uno dei primissimi cartoni animati da Lotte Reiniger. Negli ultimi anni, la cutout animation è ritornata in auge grazie alla serie animata South Park (1997 – in corso).

Fonti

Ulteriori approfondimenti

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