Le odierne tecniche di animazione e di produzione cinematografica hanno raggiunto un livello tale che, ormai, quasi non ci si pensa più: l’animazione è stata, per decenni, il frutto di una vera e propria illusione ottica. Come funziona e, soprattutto, da dove nasce l’illusione del movimento? Come ha fatto la Disney a combinare il movimento dei personaggi con la profondità di campo?
Proviamo insieme a capirne di più, partendo dalla nostra percezione dell’illusione fino ad arrivare ad uno degli strumenti che più hanno influito nel progresso dell’animazione: la camera multipiano.

Perché percepiamo l’illusione del movimento?
A lungo si è cercato di dare una risposta soddisfacente a questa domanda, ma ancora non vi sono risultati definitivi. Quello che si sa, stando allo studio proposto da Joseph e Barbara Anderson The Myth of Persistence of Vision Revisited nel 1993, è che le vecchie teorie sul fenomeno di persistenza della visione (ovvero di permanenza della singola immagine nella retina per circa 1/50 di secondo) e sul fenomeno phi (ovvero di una sorta di corto circuito a livello corticale che fonde i singoli fotogrammi in un’unica immagine dinamica), sono da reputarsi del tutto superate.

Il movimento apparente a corto raggio
Dopo aver pubblicato nel 1978 un saggio dal titolo The Myth of Persistence of Vision, Joseph e Barbara Anderson tornano nuovamente sull’argomento, per ribadire a gran voce la loro tesi. È il 1993.
We had pronounced persistence of vision dead. And frankly, we expected never again to hear the term, other than in an historical context.
Secondo loro, infatti, tanto da un punto di vista clinico che neuro-scientifico, sarebbero emersi elementi sufficienti per sostenere che vi sia una stretta correlazione tra il movimento apparente a corto raggio e il movimento reale.
- Movimento reale: è il vero movimento.
- Movimento apparente a corto raggio: si tratta di un accostamento estremamente ravvicinato nel tempo di immagini, di per sé, statiche.
In poche parole, il nostro cervello non sarebbe in grado di distinguere il movimento reale dal movimento apparente a corto raggio, essendo entrambi stimoli idonei ad attivare il medesimo conglomerato cellulare, situato all’interno del nucleo genicolato laterale (LGN): le cellule M, dedicate all’analisi delle caratteristiche di movimento e profondità del campo visivo.

Il movimento apparente a corto raggio non sarebbe, quindi, per nulla dissimile (per il nostro cervello, chiaramente!) da un vero e proprio movimento.
L’illusione del movimento nei cartoni animati
Nei cartoni animati, l’illusione era dovuta al rapido accostamento di immagini consequenziali e specifiche: in particolare, si trattava di disegni che scomponevano il movimento del soggetto in circa 24 pose per ogni secondo di footage. Questo generava, una volta assemblata la sequenza in sede di montaggio, l’illusione del movimento.
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Il soggetto, quindi, poteva muoversi: poteva alzare le braccia, aprire e chiudere gli occhi, poteva cambiare l’espressione del viso, poteva fare una piroetta su se stesso e poteva saltare, ma soprattutto poteva camminare.
La regia nei cartoni animati…
Per rendere l’illusione di un movimento di macchina orizzontale (in gergo tecnico “carrellata laterale”, o “tracking shot”) bastava far scorrere lo sfondo, ad ogni fotogramma, nella direzione opposta rispetto a quella verso cui si stava muovendo il soggetto. Questo veniva quindi disegnato su dei fogli trasparenti di acetato di cellulosa (un materiale che prende il nome di rodovetro, in inglese cel), che venivano posizionati uno ad uno sullo sfondo fisso per essere poi fotografati. Ciascuno scatto veniva poi montato in sequenza al frame rate stabilito (di norma, 24 fps, frames per second).
In questo modo il soggetto poteva muoversi e poteva interagire con lo sfondo, ma i movimenti di camera (la regia, per capirci), erano fortemente limitati.
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… e i suoi limiti
Infatti, nell’animazione classica, la macchina da presa non poteva effettuare nessun tipo di movimento che implicasse una modifica nelle distanze tra l’obbiettivo e l’immagine, sia per il tramite di zoom che di carrellate in avanti (o all’indietro). Vediamo perché.
- Zoom (in o out): la distanza con l’oggetto viene modificata per via ottica, senza incidere sulla distanza reale oggetto-obbiettivo;
- Carrellata in avanti (o all’indietro): movimento di macchina che modifica la distanza materiale tra oggetto e obbiettivo;
- Dolly zoom: distorsione innaturale dell’immagine che si ottiene combinando uno zoom in con una carrellata all’indietro (e viceversa); qui un magnifico esempio tratto da Il re leone (1994)!
L’effetto di tali movimenti di macchina consiste nell’aumento (o nella diminuzione) delle dimensioni dell’immagine nei suoi singoli elementi. Modifiche, queste, che devono essere del tutto proporzionali alla distanza reale che intercorre tra i vari piani dell’immagine e l’obbiettivo. Quindi, per fare un esempio, uno zoom in inciderà molto di più su di un soggetto in primo piano, rispetto ad uno situato in lontananza.
Ciò non poteva accadere con la tecnologia che abbiamo visto finora.
Il motivo è molto semplice: l’immagine era bidimensionale. Tutti i piani erano impressi in un’unica illustrazione e l’utilizzo di tali movimenti di camera avrebbe determinato non solo un ingrandimento (o una diminuzione) delle dimensioni di oggetti in primo piano, ma – egualmente e senza il rispetto delle proporzioni dettate dalla distanza tra i vari piani – anche di quelli posti in lontananza. Fino a interessare elementi che non avrebbero dovuto mutare minimamente le loro dimensioni, come gli astri e, in particolare, la luna piena, un vero e proprio tòpos disneyano.

Fu a partire da queste necessità che venne inventata la camera multipiano.
La camera multipiano
Il concetto è questo: non è possibile rendere l’illusione di un movimento di camera lungo l’asse della profondità se si parte da un’immagine bidimensionale. Pertanto, le opzioni che si pongono sono due, e due soltanto:
- l’immagine deve essere, anch’essa, tridimensionale;
- in alternativa, l’immagine (rectius: lo sfondo) deve essere suddivisa in più piani paralleli.
Entrambe le idee vengono messe in pratica. La prima, porta alla luce la cd. Stereoptical Camera, più comunemente conosciuta col nome di Set-back Camera.

Progettata dai Fleischer Studios (quelli di Braccio di Ferro, per capirci), la Set-Back Camera è dotata di un vero e proprio mini-set che funge da sfondo per le scene più memorabili (si pensi per esempio al decollo del Roc, una specie di falco blu gigante con la testa rossa, in Braccio di Ferro incontra Sinbad).
La seconda opzione, invece, ha portato alla camera multipiano.
I primi anni della camera multipiano: da Lotte Reiniger a Ub Iwerks
Già adoperata, in una sua versione embrionale, dalla regista tedesca Lotte Reiniger nel 1926 per il suo lungometraggio animato Achmed, il principe fantastico e, successivamente, da Berthold Bartosch nel 1932 per il film muto di animazione L’idée, la camera multipiano diventa presto una sfida stimolante per Ub Iwerks – animatore, inventore, nonché socio storico di Walt Disney – che ne realizza un prototipo partendo dai pezzi di una vecchia Chevrolet, che aveva acquistato per $350.
È il 1933: Iwerks si è da poco svincolato da Walt, per fondare il proprio studio di animazione.

Nella versione di Iwerks, la camera multipiano è posta in orizzontale. Si tratta, di una struttura piuttosto semplice, ma efficace: la camera è posizionata di fronte a una serie di pannelli verticali nei quali veniva scomposto lo sfondo di ogni singola scena. Egli, tuttavia, non riesce a sfruttare a pieno le potenzialità della camera multipiano.
Nella serie dei Comicolor, per esempio, l’espediente utilizzato da Iwerks sembra essere sempre lo stesso: un soggetto in primo piano, solitamente dipinto con colori vivaci, che si muove orizzontalmente su di uno sfondo suddiviso in più piani, mano a mano sempre più desaturati e sfuocati. L’illusione della profondità viene resa dal contrasto cromatico e dalla “messa a fuoco”; la regia, tuttavia, appare piatta e ancora in linea con le vecchie tecniche di animazione a sfondo fisso: non vi sono movimenti di macchina lungo l’asse della profondità.
Il progresso e la svolta: Il Vecchio Mulino (1937)
In casa Disney le cose vanno diversamente. Dopo l’allontanamento di Ub Iwerks nel 1930 (il quale ritornerà a fianco di Walt nel 1940), spetta all’ingegnere del suono William “Bill” Garity occuparsi degli effetti speciali e del sonoro per le produzioni di animazione Disney.
Il contributo di Bill Garity è fondamentale: grazie al suo intervento, la camera multipiano diventa verticale, con la macchina da presa posta in cima. Questa nuova struttura è dotata di un numero variabile di piani (fino a sette, a seconda delle esigenze di ogni singola scena), ciascuno autonomo e indipendente dagli altri, nei quali vengono inseriti i singoli pannelli di vetro con le illustrazioni ad olio dello sfondo.
L’illusione della profondità viene quindi resa non dal movimento della macchina da presa, che resta fissa, ma dal movimento congiunto dei singoli piani (ad eccezione dell’ultimo, la luna); ogni movimento viene accuratamente pianificato in precedenza.
Questa versione definitiva di camera multipiano viene utilizzata per la prima volta da Walt Disney nel corto animato Il vecchio mulino (1937), uno dei corti della fortunatissima serie delle Sinfonie allegre. Il cartone è una sorta di “banco di prova” della nuova camera, in vista di un suo utilizzo nel primo lungometraggio animato della casa di Burbank, Biancaneve e i sette nani.
Il successo è immediato: Il vecchio mulino, oltre ad aggiudicarsi l’Oscar al miglior cortometraggio di animazione nel 1938, sancisce l’inizio di una nuova era cinematografica per Walt Disney e per il mondo intero. Grazie alla camera multipiano, le storie di Walt Disney riescono a distinguersi, oltre che da un punto di vista narrativo, anche da un punto di vista registico e più prettamente tecnico, permettendo movimenti di camera di ogni tipo.
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La camera multipiano si mostra ben presto essere l’invenzione del momento. La portata innovativa di questo strumento è dirompente e cambierà per sempre il modo di fare animazione. Basti guardare la scena di apertura di Bambi (1942), per rendersi conto della forza della multiplane: la macchina da presa si muove in ogni direzione, si districa tra i tronchi e i rami e ci porta con lei nel cuore della foresta.

Dopo il successo de Il vecchio mulino, la camera multipiano verrà utilizzata in tutti i più grandi classici Disney come Biancaneve e i sette nani (1937), Pinocchio (1940), Fantasia (1940), Bambi (1942), Cenerentola (1950), Alice nel paese delle meraviglie (1951), Peter Pan (1953), Il libro della giungla (1967), fino al suo ultimo impiego nel 1989 per La sirenetta.
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In conclusione, possiamo dire che la camera multipiano ha rappresentato una tappa fondamentale nella storia dell’animazione. Ha inciso non solo sul modo di fare e di concepire i cartoni animati, ma anche sul modo di fare cinema. Scusate se è poco!
Se non altro, quello che ci preme sottolineare in queste ultime righe è che quando si parla di camera multipiano non si parla solo di un mero strumento di animazione, ma di una piccola – grande – rivoluzione.
Se è vero infatti che le conseguenze dirette dell’introduzione della multiplane si sono poste bene o male su di un piano prettamente tecnico (i.e. la resa di una profondità di campo convincente), gli effetti indiretti furono di ben altra portata: grazie alla rimozione dei vincoli imposti dalla bidimensionalità dell’animazione classica, a risentirne positivamente furono le storie.
La possibilità di sondare l’immagine in ogni suo piano diede a Disney una spinta nuova che lo portò in breve tempo a produrre film memorabili come Biancaneve e i sette nani (1937), Pinocchio (1940), Dumbo (1941) e moltissimi altri, classici intramontabili dell’animazione. E ci piace pensare che questo sia stato ottenuto grazie anche al contributo di uno strumento semplice, ma al tempo stesso unico, come la camera multipiano.
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Giacomo Lamonica
Immagini © Disney, Celebrity Productions, Paramount Pictures.
Fonti:
J. Anderson e B. Anderson, The myth of persistence of vision revisited
L. Iwerks, The hand behind the mouse: the Ub Iwerks story
J. P. Telotte, Ub Iwerks’ (Multi)Plain Cinema
The Walt Disney Family Museum, Multiplane Educator guide