Silvio Camboni è uno dei disegnatori italiani Disney con maggior risonanza a livello internazionale. E a parlare è la sua carriera artistica, costellata non solo di memorabili storie pubblicate su Topolino, ma persino in Francia e in Belgio, patrie di grandi fumettisti.
Un artista di notevole spessore, che il 2021 riporterà presto sulle pagine di Topolino. Perché sì, è vero: Silvio Camboni e Francesco Artibani (e non solo) stanno lavorando assieme a una nuova storia. Vista l’occasione, abbiamo deciso di contattare Camboni per ripercorrere insieme a lui la sua storia con Topolino e provare a scoprire il segreto di un certo tombino.
Benvenuto Silvio Camboni. Sappiamo che la tua collaborazione con Topolino è partita tra il 1988 e il 1989, ma com’è iniziata?
“Come spesso accade nella vita è iniziata un po’ per caso. In quegli anni ero a Milano perché studiavo architettura e cercavo di trovare un gancio per entrare nel mondo dei fumetti. All’epoca ero un appassionato e mi sarebbe piaciuto fare questo lavoro. Per cui gironzolavo per le case editrici con il mio book, come nel più classico dei sistemi pre-digitali.”
Con il portfolio in mano.
“Sì, autobus, appuntamento telefonico e spera in Dio. Ne ho fatte di tutti i colori, ne ho viste molte e poi sono finito all’Epierre di Gianni Bono a Piazza Napoli, a Milano. Lì ho conosciuto Carlo Chendi che ha visto i miei disegni – non erano delle cose necessariamente disneyane – e, insieme a Gianni, mi ha proposto di provare a fare delle tavole di prova per Disney.
Dopo un po’ di tempo mi è stata proposta una piccola sceneggiatura iniziale che ho disegnato a matita, perché ancora non ero capace di inchiostrare. Poi ho conosciuto Giovan Battista Carpi e l’allora direttore di Topolino Gaudenzio Capelli, il quale mi ha proposto di entrare direttamente a lavorare nel gruppo dei disegnatori di Topolino. Per me era chiaramente la realizzazione di un sogno, per cui non ho esitato un attimo, anche se non è stato né facile né immediato, io te l’ho riassunta.”
Ti sei fatto un nome anche all’estero, soprattutto nel mondo del fumetto franco-belga, per cui tuttora pubblichi. Com’è il mondo del fumetto francese e cosa cambia rispetto a quello italiano?
“Cambia come dal giorno alla notte. E lo dico nel rispetto di tutti e di tutto, perché io sono italiano, la mia carriera e la mia vita si svolgono in Italia, però è come se tu giocassi a calcio in Promozione o in Serie D interregionale, e poi di colpo cominci a giocare in Serie A in un club importante. Il passaggio al mondo del fumetto franco-belga è questo: è la Serie A del fumetto europeo, per una questione di tradizione, di numeri e di case editrici.
La Francia e il Belgio hanno una tradizione enorme e lunghissima di editori e lettori. Due cose che in Italia purtroppo negli ultimi anni sono venute a mancare: ci sono pochissimi lettori e ancora meno editori, nel senso pieno del termine. È chiaro che per gli autori avere a che fare con un vero mercato e con tanti editori che si fanno una vera concorrenza cambia tutto.”
Cosa ti ha spinto a lavorare fuori Italia e cosa ti ha attratto del fumetto francese?
“All’epoca conoscevo diverse cose del fumetto tradizionale franco-belga. Cito nomi che tutti conoscono: Asterix, Lucky Luke, Tin Tin e vari altri classici, qualche autore più importante come Moebius e cose del genere. Mi interessava capire cosa succedesse di là, perché da noi il mondo era abbastanza chiuso in alcune cose. C’era Topolino, c’erano i Bonelli e poco altro.
E invece, una volta che mi sono affacciato dalla finestra e ho visto cosa c’era di là, ho capito che era come se avessi navigato nella vasca da bagno e improvvisamente fossi entrato in un oceano. C’era qualsiasi cosa un autore e un lettore potessero desiderare, si aprivano spazi immensi.
Naturalmente quando tu entri in un oceano con una barchetta che è stata progettata per navigare in una vasca da bagno, hai le tue gravi difficoltà e non tutti sopravvivono: io ho avuto la bravura, la fortuna, il coraggio e la capacità. Ovviamente le componenti sono tante per riuscire a navigare in questo oceano tempestoso.
Dopo tanti anni mi sono fatto un piccolo nome, un piccolo pubblico e ho degli editori con cui collaboro ormai da molti anni, autori e amici che conosco che lavorano con me e via discorrendo. Per cui adesso tutto va bene, però questo non è stato semplice come sembrerebbe a raccontarlo.”
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In base a quanto ci dici il comparto lavorativo franco-belga è diverso da quello italiano. Secondo me è anche diverso il pubblico a cui ti rivolgi, perché ovviamente un conto è quello italiano, un conto è quello estero. In che cosa differiscono?
“Intanto nei numeri. Un titolo di successo come Asterix che esce adesso in Francia non è più un titolo forte come lo era 20 anni fa, ma quando esce vende un milione e mezzo di copie nei primi 2 mesi. Ripeto, un milione e mezzo di copie. Adesso in Italia un libro a fumetti per fare un milione e mezzo di copie impiega 20 anni. [In Francia, ndr] Ci sono moltissimi lettori, e soprattutto sono lettori molto molto molto esperti ed esigenti.
Ora è da un anno che non vado in Francia per i motivi noti a tutti, però quando andavo nei vari festival – ogni piccolo paese ha il suo festival di fumetto, a noi sembra una cosa strana -, tu hai le famiglie che vengono a comprare i libri: i papà acquistano libri per la loro collezione, la mamma perché ha i suoi fumetti preferiti, il figlio perché ha i suoi eroi preferiti, la figlia perché ha le sue serie che adora.
E tutta la famiglia ha un gusto strutturato di qualsiasi cosa, perché ci sono fumetti per tutte le età per tutte le culture, per i ragazzi, le ragazze, gli adolescenti, i bambini, gli adulti, per quelli che amano il fumetto erotico, per quelli che amano il fumetto storico.
Incontri i gusti di tutti anche perché tutti sono molto appassionati, e quindi sono disposti anche ad acquistare molte copie perché quando tu compri un libro che costa 13/15 euro, e ognuno nella tua famiglia si è comprato 3/4 volumi, capisci che la spesa media per ogni famiglia comincia a essere importante. In Italia sono tutte cose abbastanza fantascientifiche per motivi economici, culturali di abitudini e altro.”
Qui si apre un dibattito importante. Negli ultimi anni in Italia si è diffuso il termine graphic novel, anche grazie a fumettisti come Zerocalcare. Nonostante ciò, il fumetto è ancora vittima di stereotipi. Perché viviamo in una situazione di questo tipo? Tenendo in considerazione la differenza tra il pubblico italiano e quello francese, cambia il modo di giudicare il fumetto?
“Tanti tanti anni fa, quando ero solo un ragazzo, in Italia il fumetto esisteva, ed esisteva in modo più strutturato e più vicino a quello francese. C’erano i grandi maestri come Manara, Pratt, Giardino, Magnus. Tutti autori che anche in Francia sono stati adorati e ripubblicati migliaia di volte. C’erano anche Linus e Comic Art: c’era molto più fermento. Questa cosa si è persa perché credo sia mancato il pubblico di riferimento. Hai voglia di fare, di pubblicare libri o riviste, ma se poi non c’è nessuno che te li compra…
Sono sopravvissute solo alcune parti della grandissima produzione che c’era in quegli anni o quelle produzioni che avevano un brand molto forte come Disney o Bonelli, che faceva un fumetto – e fa ancora – un fumetto di tipo ‘popolare’, a basso prezzo da edicola. Il prodotto da libreria di alto livello curato nell’edizione, nei colori, nella carta e nel formato è via via scomparso.
Adesso sta un po’ riandando di moda la graphic novel, che ha cambiato nome, ma alla fine è sempre un libro a fumetti. In Italia ha preso una piega che a me non piace molto, perché è la piega da Isola dei famosi. La maggior parte delle persone ha contribuito al successo ‘popolare’ di Zerocalcare (che a me piace moltissimo e compro) oppure di Gipi senza capirne il significato e il senso profondo.
Da poco ho visto un servizio di un telegiornale nazionale che parlava di un libro a fumetti, ma non ha parlato del prodotto, bensì delle implicazioni socio-culturali che quel tipo di operazione aveva. Quando si parla di fumetti in Italia non si parla della storia e degli autori, ma di quello che c’è dietro il libro. In questo caso era la storia personale un po’ complicata dell’autore.”
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Tutto ciò va un po’ in controtendenza con Topolino, visto che anni fa le storie venivano pubblicate senza nome degli autori e dei disegnatori. Si può dire che questo processo è iniziato nel momento in cui si è deciso di dare nome ai fumettisti oppure c’è qualcosa di più profondo di cui non ci stiamo accorgendo?
“C’è sicuramente qualcosa di più profondo. Aver cominciato a pubblicare il nome degli autori è stato solo un atto dovuto, di civiltà e di onestà intellettuale. Il fatto che qualcuno usi Topolino come forma denigratoria fa torto solo a chi lo fa. Ma chi lo ha fatto, in modo anche costante negli ultimi tempi, ha fatto solo brutte figure.
Topolino è intoccabile, nel senso che non si può toccare perché ha insegnato a leggere a generazioni di bambini che sono diventati adulti, ed è stato un riferimento culturale importante per la civiltà italiana. Adesso chiaramente il mondo è cambiato, ma è stato veramente un punto di riferimento. Non capire questo significa solo essere poveri di mente e incapaci di comprendere una cosa che è lì sotto gli occhi di tutti: non è un parere, è un dato di fatto.”
Secondo me il problema è a 360 gradi. Non è solo il pubblico che considera il fumetto come serie B, ma anche all’interno degli addetti ai lavori circola un po’ l’idea che il fumetto sia un “ripiego”. Eppure il fumetto è un’arte che crea posti di lavoro, perché si parla anche di musei, iniziative, mostre, festival, fiere. Come possiamo cambiare la percezione di tutto ciò?
“Intanto bisogna chiedersi se vogliamo cambiare la percezione di tutto ciò. Devo dirti la verità: francamente un po’ me ne frego di tutta questa roba. Se la cultura, con la C maiuscola, vuole considerare il fumetto una subcultura, è un problema suo. Io non ritengo di essere autore di prodotti di serie B. Le cose che faccio credo siano importanti. Lo sono per me, lo sono per i miei lettori, lo sono per le persone che collaborano con me. Se poi qualcuno pensa che siano di serie B, ripeto, è un problema suo.
C’è anche un altro discorso: il fumetto come movimento interessa fino a pagina 2. Io stesso quando faccio Disney è un lavoro diverso di quando invece faccio i miei libri per il mercato franco-belga. Ognuno dà il meglio di sé e cerca di fare il massimo. Il mio pubblico di riferimento francese non considera minimamente i libri di serie B, tutt’altro!
Gli autori di fumetti in Francia sono considerati degli autori a tutti gli effetti. Questo è un problema strutturale e subculturale del nostro Paese, neanche il più grave eh, ne abbiamo di peggiori. Non ci possiamo fare nulla, ci siamo arrivati con un processo graduale e lungo. Probabilmente un giorno ne usciremo con un processo altrettanto graduale e lungo.”
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Torniamo alla tua carriera. All’inizio ci hai parlato dei tuoi studi in architettura: quanto questi hanno influenzato i tuoi disegni?
“Quando fai un’attività creativa non puoi prescindere dalle tue esperienze di vita. Quindi certamente, ma anche le fidanzate che hai avuto, gli amici con cui andavi a giocare a calcio, le spiagge che frequentavi, il vino che bevevi e via discorrendo. È difficile scindere la vita nelle sue componenti: la parte del lavoro, la parte della famiglia, la parte emozionale, la parte razionale.
Noi siamo esseri complessi e come tali agiamo. Quando lavoro vado in modalità professionale, ma tutto quello che ho dentro lo devo mettere da qualche parte, e lo metto anche nel mio lavoro. Il percorso di vita che ho fatto negli anni dell’università è una parte che poi ti segna per il resto della tua vita.
Quindi la risposta alla tua domanda è sì, quello che ho studiato e quello che ho vissuto in quegli anni ha influenzato il mio modo di lavorare, come tante altre cose.”
A proposito di influenze: guardando il tuo tratto non riusciamo a cogliere in toto le tue ispirazioni stilistiche. Ne hai?
“Sì, come tutti. In Disney la mia fonte di ispirazione principale ha un nome e un cognome: Giorgio Cavazzano. Prima ancora di essere un mio amico e collega, è stato il mio punto di riferimento formale dentro i fumetti di Topolino che leggevo avidamente. Le sue storie negli anni Settanta così dinamiche, piene di vita e innovative mi hanno folgorato. Quando ho deciso di fare Disney sono partito semplicemente da quello che mi piaceva, e vale a dire Giorgio Cavazzano, era la mia musa.
Invece il mio maestro era Giovan Battista Carpi, con uno stile e un approccio alla tavola completamente diverso. Carpi mi ha portato a capire che dovevo lavorare su tutto per arrivare a sviluppare la mia personalità. Questo è un grandissimo pregio che Giovan Battista Carpi ha avuto e va riconosciuto, perché a quell’epoca non c’ero solo io, c’era Silvia Ziche, c’era Corrado Mastantuono, c’era Roberto Santillo, c’era Andrea Freccero, c’era Alessandro Perina, c’era un sacco di gente che oggi sono autori importanti della Disney e di Topolino. E ognuno di noi ha sviluppato uno stile del tutto personale.
Questo va riconosciuto come merito soprattutto a Carpi che non ha mai provato a creare dei cloni di sé, ma anzi ha insistito perché ognuno sviluppasse la sua personale visione del mondo Disney. Per quello che riguarda il mondo franco-belga, le reference sono tantissime e io le mischio tutte ogni giorno continuamente.”
Ti occupi anche di colorazione nelle storie?
“Non me ne occupo direttamente, nel senso che non coloro le mie tavole. Su Topolino non lo fa nessuno di noi, ci sono degli studi che fanno questo lavoro e lo fanno in modo un po’ più seriale. Invece nei libri che faccio per la Francia, dove il colore diventa una questione un po’ più importante, con il mio sceneggiatore, Denis-Pierre Filippi, abbiamo scelto dei coloristi diversi.
Ovviamente mi occupo di colore, nel senso che gestisco anche quel processo in collaborazione con il colorista e lo sceneggiatore. Ma per scelta ho deciso di non colorare le mie tavole, perché mi avrebbe raddoppiato il tempo di fare un libro, mentre mio interesse principale è raccontare storie.”
Preferisci le storie dei Paperi o dei Topi?
“Mi diverto moltissimo con entrambi, ma se tu vai a vedere per esempio gli ultimi due libri che ho pubblicato in Francia, Mickey et l’océan perdu e Mickey et la terre des anciens, vedi che c’è due volte Topolino.
Ritengo che i personaggi Disney abbiano potenzialità diverse. Con Paperino, Zio Paperone e i nipotini puoi fare un certo tipo di storie, sono molto divertenti e mi piace molto disegnarli. Con Topolino puoi fare un altro tipo di storie, sono secondo me più a 360 gradi.
Topolino è un personaggio che in Italia è stato limitato da un uso sbagliato che gli autori ne hanno fatto per tanti anni, mentre ha potenzialità inespresse che potrebbero essere sfruttate meglio. Quello che ho cercato di fare quando ho fatto i miei libri in Francia è stato mettere Topolino alle prese con avventure di amplissimo respiro, che ne esaltassero le caratteristiche di personaggio universale.”
Paperino e Zio Paperone spesso sono vittime inconsapevoli di un alone di superficialità per cui sono diventati troppo mainstream: Paperino pigro e Zio Paperone avaro.
“E non è colpa loro, è colpa degli autori.”
Esatto, dipende da come vengono gestiti questi personaggi. In base a quanto hai detto prima, viene da pensare che sei una persona abbastanza duttile sulla scelta del personaggio.
“Sì, lo sono. Mi piace esserlo e mi sforzo di esserlo sempre di più. È chiaro che invecchiando diventi sempre meno elastico, è un dato fisiologico prima ancora che logico. Io cerco sempre di sforzarmi di uscire un po’ dalla mia zona di confort per tenermi vivo. Cerco di fare un po’ di tutto e di mettermi alla prova costantemente. Non so se sia una buona cosa oppure no, però questo è quello che mi piace fare, per cui lo faccio.”
Secondo noi è una buona cosa, perché tu in passato hai anche collaborato con produzioni che la nostra community ricorda ancora con tanto affetto, come X-Mickey e Monster Allergy. Ci puoi raccontare qualche aneddoto su queste storie? Come è stato realizzarle, tenendo in considerazione che ti confrontavi con tipologie di pubblico differenti rispetto a Topolino?
“Ti rispondo lateralmente non rispondendo direttamente, perché non hai citato un’altra esperienza importantissima che è stata MM, alla quale ho partecipato con grande entusiasmo. Cito MM perché su questa idea ho fatto un lavoro abbastanza straordinario in fase di progettazione e realizzazione. Un Topolino visto in mondo più adulto, un po’ più noir, un po’ avventuroso, in un mondo più cattivo, meno accomodante della Topolinia del Commissario Basettoni.
E in quell’occasione non solo ci sforzammo tutti di immaginare un modo più maturo e più ampio di interpretare il personaggio di Topolino, ma furono fatte cose interessanti anche dal punto di vista del design. Essendo architetto ed essendo architetto Disney, fui incaricato in modo abbastanza naturale di lavorare alla struttura urbanistica e architettonica della città di Anderville.
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E fu un’esperienza molto divertente, una cosa che non si è mai fatta in quel modo così strutturato, così logico se vuoi. Ho ancora tutti i disegni dei piani urbanistici di Anderville, con le paludi che la circondavano, con i quartieri e i ponti, con tutto quello che poteva contribuire a rendere più realistico e solido il nuovo universo nel quale Topolino si sarebbe trovato a doversi muovere e confrontare. Quella fu un’esperienza molto particolare e molto diversa dal solito.
Anche X-Mickey è stato divertente da fare perché erano delle storie horror molto annacquate, con dei mondi bizzarri che normalmente non vedresti. Monster Allergy era ancora più borderline rispetto alla tradizione dei personaggi Disney. Fa tutto parte di quel bagaglio di esperienza che uno che fa questo mestiere da tanti anni come faccio io finisce per toccare, per portarsi appresso, se è un pochino curioso.”
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Sentendo le tue parole mi riviene in mente un’intervista che abbiamo fatto a Roberto Vian, parlando proprio delle ambientazioni che sono considerate ‘solo’ sfondi, ma potrebbero essere guardate come veri e propri personaggi. Tu sei d’accordo con questo?
“Sì e no. Ci sono momenti della storia in cui lo sfondo è sfondo. Cioè tu sei focalizzato sul personaggio, c’è un dialogo importante, c’è uno snodo di narrazione importante e tu devi essere focalizzato sul personaggio ed è importante che il lettore si focalizzi sul personaggio, su quello che sta dicendo e sulle azioni che si stanno compiendo. Poi ci sono snodi della narrazione in cui quello che prima era sfondo diventa personaggio.
Per fare un esempio: se il personaggio principale cade da un ponte e succede una cosa che può succedere solo in virtù della conformazione di quel ponte, oppure c’è una nebbia tale per cui la storia prende una piega piuttosto che un’altra, è chiaro che la nebbia e il ponte diventano personaggi a loro volta.
Credo che è personaggio chi il personaggio fa, per citare qualcuno che noi conosciamo bene. Nel momento in cui lo sfondo è sfondo, rimane sfondo. Nel momento in cui lo sfondo diventa recitante, allora assume i connotati del personaggio.”
Dal Camboni del 1988 a quello del 2021: com’è cambiato il fumettista in tutti questi anni?
“È ingrassato, ha perso tonicità fisica, non gioca più a calcio, vede meno bene.”
Quello un po’ tutti, il lockdown ci ha penalizzato.
“Esatto, quindi tutti i cambiamenti fisici non positivi. Ero molto più bello quando avevo 20 anni, ovviamente. Invece dal punto di vista professionale è cambiato tutto quanto. Quando ho iniziato a fare Topolino nel 1989, ero un ragazzo di belle speranze con tanta passione e un briciolo di talento che si affacciava in questo mondo, che per me in quel momento era più un sogno che una realtà.
Dopo più di 30 anni sono un professionista fatto e finito, che ne ha viste di tutti i colori, che ha fatto un sacco di esperienza e che fortunatamente si diverte ancora e ha ancora la passione e le energie per farlo. Ho guadagnato un sacco di trucchi e di cose che adesso so e che all’epoca non sapevo che mi permettono di ottimizzare molto il mio lavoro, minimizzando i miei difetti, che sono ancora tanti, e ottimizzando i miei pregi, che sono quelli che sono, ma che ho imparato a mettere in evidenza.”
Il 2016 è l’anno della tua ultima storia su Topolino, Topolino e l’intrigo sul set, ma abbiamo letto da un post di Francesco Artibani che tornerai. Ci puoi raccontare qualche anticipazione?
“Non posso dirvi molto se non che stiamo lavorando effettivamente a un progetto io, Francesco Artibani e il direttore Alex Bertani, che ci ha chiesto appunto di fare questa cosa. Già da qualche mese Artibani sta scrivendo la storia, io sono al corrente di tutto quanto, ma non ho ancora tirato una sola linea, il mio contributo non è ancora arrivato. Nel 2021 dovrei tornare anch’io sulle pagine di Topolino.”
Cinque anni dopo questa storia torno a lavorare con lo stimato Silvio Camboni, divenuto nel frattempo un reuccio in terra di Francia – ma per fortuna nell’animo è rimasto l’umile villico di sempre.
Pubblicato da Francesco Artibani su Lunedì 28 dicembre 2020
In questi 5 anni hai sentito l’assenza di una tua relazione con Topolino?
“Non più di tanto, ero assorbito in tutte le cose che stavo facendo. Ma io mi sono sempre sentito parte della redazione di Topolino. È come essere architetti e giornalisti – sono anche giornalista. Il fatto che io non faccia l’architetto non mi fa sentire meno architetto. Il fatto che io avessi smesso di collaborare con Topolino non ha smesso di farmi sentire parte integrante di Topolino, per affetto, per conoscenze, per abitudini, per le persone che ci lavorano e per tutto un mondo che sento ancora mio.
Così quando abbiamo parlato con il direttore di fare di nuovo qualcosa, non ho neanche minimamente messo in discussione l’ipotesi che questa dovesse essere una cosa da farsi subito. Non l’ho sentito perché ero troppo impegnato a fare altro, ciò che stavo facendo erano tutte cose che mi piacevano. Ma nel momento in cui mi è tornata la possibilità di ricominciare a farlo, tutto è iniziato in modo naturale.
Un po’ come quando hai un amico di infanzia che vedi tutti i giorni, poi la vita magari ti separa per un paio di anni, poi ti ritrovi e scopri che sì, siete un po’ cambiati, ma in fondo vi volete bene esattamente come qualche anno prima.”
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Ultima domanda. Ma quindi se la palla rimbalza sulla radice e poi sul tombino, è gol o no?
“Dipende, perché le regole cambiano se stai giocando in via dei Tigli oppure nel campo di via Holmes [ride, ndr]. Insomma cambia tutto no? Cambia chi gioca, chi c’è, chi non c’è e chi è tornato. In quel caso [Paperino e il dribbling del tombino, ndr] c’era un giocatore che era scomparso per tanto tempo, improvvisamente torna e scopriamo essere diventato un giocatore molto importante. Una storia di amicizia e rimbalzi bizzarri.
Dai, l’ultimissima. Il dribbling del tombino è una di quelle storie che noi della community preferiamo e che ci fanno battere il cuore. Secondo te è questa la magia del fumetto?
“Credo che sia la magia del raccontare storie. A me capita per i fumetti ma anche per romanzi e film. E questa cosa del raccontare storie è talmente scritta nel nostro DNA che tu lo puoi fare in tanti modi. Il fumetto è solo uno dei tanti modi che si possono utilizzare per raccontare storie e trasportare istantaneamente il lettore dal suo divano, dalla sua sedia, dal suo letto in un altro mondo dove succedono cose incredibili. Questa è la magia del fumetto, ma più in generale delle storie che si raccontano.”
Intervista a cura di Angelo Andrea Vegliante, Mattia Del Core, Agnese Amato e Alessia Loddo
Si ringraziano Ginevra Emilia Carrero Meglio, Marta Leonardi e Stefano Buzzotta