Disegni impressionanti, atmosfere dense di pathos e un tratto a dir poco invidiabile: Roberto Vian è uno dei disegnatori più riconoscibili del fumetto Disney. Equilibri, forme e geometrie che rivedremo presto nella nuova serie di PK con il capitolo UR-Evron (di cui vi abbiamo reso nota anche la data di uscita), e che conferma ancora una volta la collaborazione con Roberto Gagnor (il quale ci ha raccontato il suo punto di vista sul nuovo PK).
Vian è sicuramente un disegnatore che ha segnato un’era importante per l’evoluzione grafica di Topolino Magazine, e lo testimoniano le sue opere e la sua partecipazione a progetti paralleli, come X-Mickey, ancora nei cuori di molti. Vista la quantità di temi da affrontare – e il fatto che non abbiamo mai parlato con il diretto interessato -, abbiamo chiacchierato per oltre un’ora con Roberto Vian.
Benvenuto, Roberto Vian. Qualche tempo fa abbiamo intervistato Roberto Gagnor su PK UR-Evron. Qual è il tuo rapporto con questo personaggio e con il pubblico di riferimento?
“Grazie innanzitutto del cortese invito. Non mi è mai stato chiesto da Disney Italia di partecipare a questo progetto, per cui non ho seguito particolarmente la serie. Leggo pochissimi fumetti, cerco di fare una selezione. In generale ora con Panini ho delle possibilità anch’io. Nel lavoro con Alex Bertani, e nel particolare con Gagnor, ho dovuto giustamente cominciare ad istruirmi un po’ sul mondo PK. Come ho avuto modo di dire in un’altra occasione, il fascino del personaggio secondo me risiede nel darsi come sintesi dell’espressione cognitiva occidentale, vista attraverso il mondo Disney.”
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Cioè?
“Nel senso che la sua potenza su quello che viene definito pubblico – termine che reputo inelegante – si evidenzia nel fatto che si tratta in radice di Paperino e, con PK, si esplicita la sua iperbole tecnico-scientifica. L’anima della cultura occidentale è la tecno-scienza, nessun’altra civiltà nell’evento umano ha prodotto questo fenomeno come auto-tutela verso il dolore.”
In che senso?
“Noi abbiamo una discendenza culturale notoriamente greca. In Grecia nascono la mitologia, la filosofia, la scienza, il teatro, il primo sistema monetario incastonato nella figura dello Stato, la codificazione artistica, la medicina… Dire Occidente significa dire Antica Grecia.
Noi parliamo come ci ha insegnato Platone: la grammatica, la sintassi e il linguaggio logico sono codifiche concettuali di Platone. Dopo di che, noi occidentali filtriamo la cultura greca attraverso la cultura giudaico-cristiana che inventa quella figura grandiosa del futuro sempre positivo, qui la leva della tecno-scienza diventa lo strumento più potente che il genere umano abbia ideato per difendersi appunto dal dolore e dalla morte. Queste cose nelle università non si studiano.
Riguardo i media mi astengo. Sono plessi fondamentali da dove discende anche la struttura restaurativa in tre atti che impieghiamo per raccontare film, romanzi e anche fumetti. La ‘Divina Commedia’ è impostata in questo modo. Anche le barzellette.
Questo snodo cognitivo ce lo espone la filosofia, da Platone sino a Severino passando per Nietzsche e Heidegger. La visione del mondo dell’Occidente è il pensiero tecnico-scientifico. Lo si evince di nuovo anche dal nostro linguaggio: linguaggio vuol dire pensiero che, a sua volta, significa azione. Ancora Heidegger ci ricorda che il linguaggio è la casa dell’essere”.
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Tornando un attimo sui binari Disney: i Pkers sono noti per essere molto esigenti, soprattutto a livello autoriale, ma credo anche a livello artistico. Temi le reazioni dei Pkers, che comunque nelle scorse uscite del nuovo PK hanno un po’ storto il naso?
“Autoriale e artistico meriterebbero un approfondimento, magari un’altra volta. Il termine ‘temere’ non mi viene in mente. Di solito quando vi è una collana a fumetti, come una serie di telefilm, ci sono degli appassionati di lungo corso. Passione significa essere al di fuori del cerchio della razionalità. È una questione emotiva, va bene così: sostanzialmente l’essere umano è emotivo.
Qualsiasi reazione è assolutamente legittima, ovviamente stando all’interno di un comportamento di rispetto reciproco, dall’altra reputo di star facendo il meglio che posso in rapporto alle condizioni date. Se la cosa non funzionasse, l’editore può scegliere un altro disegnatore come ha già fatto.
Faccio un esempio: quando è stato pubblicato lo scorso volume, il primo che ho disegnato, una persona mi ha fatto un appunto con gentilezza riguardo ad Uno, che sarebbe un po’ troppo leggero e poco drammatico. Ho riscontrata questa cosa leggendo altri passaggi e con questo volume ho tenuto in considerazione il pensiero del cortese interlocutore, che ringrazio.”
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Facciamo un passo indietro. Possiamo dire che, a livello di fumetto Disney, le prime persone che hanno messo gli occhi sul tuo lavoro sono state Giovan Battista Carpi e Giorgio Cavazzano. Quanto e che cosa hai imparato da queste due personalità?
“Carpi era un intellettuale, prima che un disegnatore. Secondo me questo si vede nelle sue pagine, perché la densità concettuale è particolare, basti pensare a Guerra e Pace. Non è sufficiente fare una traduzione a fumetti come disegnatori di qualche titolo importante.
Quando andavamo a Parigi ai meeting Disney, Carpi ed io passavamo il tempo possibile a passeggiare e a parlare di Mozart e dell’Antica Grecia. Con lui ho condiviso un atteggiamento che in parte era già mio, perché era già un mio modo di vivere: amplificare il lavoro attraverso lo studio, che fondamentalmente significa non vivere il lavoro solo per questioni contingenti.”
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Non semplicemente per portare il pane a casa, diciamo.
“Non solamente per tenere il frigorifero pieno e andare in giro sui social e alle fiere a fare i personaggi, che è una linea di comportamento estremamente modesta. Non vado ad un festival da 20 anni, trovo siano in genere ambienti abbastanza spensierati. Non frequento nessuno a parte qualche rara occasione telefonica.
Poi magari un giorno capiterà, ma per una questione seria. I Festival, a mio avviso, andrebbero impostati diversamente anche proponendo un dialogo con le persone, più allargato, che offra un’occasione di collegamento con il mondo della vita. Come fanno alcuni scrittori e registi intelligenti.
Completando la risposta sopra, con Cavazzano ho avuto modo di amplificare l’approccio alla struttura della pagina e anche del disegno, appunto, Disney. Io sono nato come disegnatore realistico e iperrealistico. Disney è venuto dopo, intorno ai 24 anni, per cui mi ci sono affacciato abbastanza tardi, di solito si comincia prima. Penso che questa mia impostazione si veda anche nell’attuale lavoro con Gagnor, un respiro e un approccio…
Non Disneyano.
“Diciamo che, se ci dovessimo attenere in maniera drastica a ciò che si definisce stile Disney classico, in Italia dovremmo fermarci a Carpi. Con Scarpa si comincia a modificare in modo assolutamente intelligente ed elegante, Scarpa era un grandissimo, e ciò è stato accettato dunque, l’aggettivo classico potrebbe essere anch’esso argomentato.
Mettere a punto uno stile nel fumetto Disney è un privilegio di pochissimi. Ed invece sembra vi siamo 5/6 stili diversi. Dal mio punto di vista ad oggi l’unico in cui si evidenzia questa operazione è Giorgio Cavazzano. Per un disegnatore professionista lasciare andare un po’ la mano non è difficile. È molto facile nel disegno Disney fare confusione tra interpretazione e distorsione.
Ritchie Blackmore, il grande chitarrista dei Deep Purple, diceva che per fare un buon Hard Rock non basta alzare il volume. Tanto quanto non basta allungare un becco o deformare un occhio. Uno stile è una visione d’insieme che abbia una coerenza tale che ragiona sul modo concettuale di costruzione del personaggio, dell’ambiente e della tavola in ordine all’interno del racconto. Incluso l’impiego di eventuali tratteggi e chiaroscuri e, non secondario, dialoga con il flusso formale della civiltà in cui vive, allargandone le possibilità di linguaggio. Diversamente è solipsismo.”
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A questo punto mi viene da chiederti: quali sono le basi che rendono tale uno stile?
“Il termine arte si traduce con tecnica, non vuol dire un’altra cosa, non è niente di aulico: arte significa procedura tecnica, anche qui ci aiuta l’etimologia latina e prima greca. Faccio una sintesi: non c’è il significato e la forma che lo esprime, bensì la forma è il significato. Il modo in cui facciamo le cose nella vita determina il loro contenuto.
Qui possiamo appoggiarci ad Aristotele, Hegel, il Circolo di Vienna d’inizio ‘900 e altri. Questo a mio avviso è uno sguardo poco frequentato nella cultura, nei rapporti umani e anche in economia. Spesso pensiamo di fare una cosa e invece ne stiamo facendo un’altra. Non è un insulto. È umano.
Prima avevo accennato alla struttura tecnico-scientifica che guarda al futuro in modo sempre positivo: questo è un plesso solamente occidentale. L’apparato tecnico-scientifico serve per andare in questa direzione: la forma esprime il contenuto. Il modo in cui io faccio le cose determina il modo in cui penso e viceversa.
Venendo alla tua domanda, Platone nel suo viaggio in Egitto descrive la sua ammirazione per quelle espressioni artistiche, che lungo le generazioni venivano riprodotte fedelmente a se stesse: la civiltà egizia basa la sua cultura, visione del mondo, sulla tradizione. Noi Occidentali basiamo sulla figura del futuro e dunque del cambiamento, dell’innovazione.
Oggi anche la fisica conferma che il futuro è un tempo inesistente. Questo è, a mio avviso, un passaggio su cui riflettere perché condiziona in radice il modo di costruzione di una civiltà. Esempio su Disney. Vi sono alcuni passaggi in cui si vede che, invece di mettere 4 segni, Cavazzano ne mette 3, cioè salta un passaggio. Non posso fare un esempio a matita perché non ci stiamo guardando [ride, ndr]. Non è una deformazione, è un ragionamento sulla struttura di fondo. Si chiama riflessione sulla tecnica, sul pensiero.
Alberto Breccia ha espresso, a mio avviso, l’esempio più sontuoso di professionista del fumetto che abbia riflettuto in modalità costante in questa direzione. Potrei dire che il metodo di approccio che propongo con il fumetto si vede meglio negli esempi altri da Disney.”
A proposito di disegni, abbiamo notato che nelle tue opere c’è un forte tratto di inchiostrazione. Sei tu a inchiostrarle? E in base a cosa hai scelto di distinguerti con questa impronta estetica nell’ambito Disney?
“Le pagine me le inchiostro io. Ho provato molti anni fa a cercare un collaboratore, ma ho trovato delle difficoltà perché mi sono accorto che sono un po’ paranoico. Per cui ho deciso di continuare a lavorare da solo. Non ero soddisfatto dei risultati che mi presentavano. Mi ricordo che in quel periodo lo stesso Cavazzano mi aveva suggerito un rifinitore a china, abbiamo fatto un provino assieme, sono andato a casa sua e gli ho spiegato che non funzionava. Succede.”
Sei una persona molto esigente comunque.
“Diciamo che per fare quello che faccio un certo grado di impegno e controllo ce lo devo mettere. Posso altresì dire che la trascelta sul modo di disegnare e rifinire che impiego non è stata particolarmente razionale: gli abissi lavorano spesso a nostra insaputa. È ciò che sto facendo anche adesso con PK, con moderazione.
Sono partito su Danger Dome con un taglio prudente poi, vista la disponibilità da parte di Panini ho alzato un poco il tiro. Qui faccio riferimento ad Alex Bertani e Andrea Freccero, art director. Bertani è un manager straordinario, per la mia esperienza in Italia è piuttosto raro. Qui tengo a sottolineare che le persone che mi conoscono sanno che non sono un lenone.
Quindi sto cercando di guardare un po’ di più a cose che mi sono piaciute del fumetto in generale approcciandole in modalità concettuale: propongo un tassello alla volta e cerco di non abusare perché c’è una produzione in corso, non mi posso permettere di mandare 10 tavole per poi rifarle.”
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Crescendo con il fumetto Disney sono rimasto molto attratto dalle tue ambientazioni, che secondo me hanno una forte componente realista: molte delle ambientazioni mi ricordano Londra. Ci sono dei luoghi che influiscono sulla tua attività artistica, come mari o montagne?
“Riesci a sorprendermi in modo piacevole, per cui direi in sintesi 3 cose. Il primo fumetto che mi sono messo a disegnare per conto mio, per puro piacere personale, partendo da un romanzo giallo, era ambientato a Londra.
Poi, secondo, abito in montagna e la amo moltissimo, l’intenzione sarebbe di rimanerci. In vita avrò cambiato 10/12 residenze in 3 continenti diversi. La montagna è meravigliosa, allarga la percezione di ciò che definiamo tempo. In generale, per quanto riguarda la struttura dell’ambientazione in termini di organizzazione spazio-temporale della pagina in funzione della dorsale narrativa e della luce, penso abbia influito anche in PK. Rispecchia in qualche modo la sintesi che ho proposta poc’anzi, ripetiamolo: la forma è il contenuto.
Secondo me alcuni lettori mostrano qualche distrazione, da questo punto di vista. Potrebbe essere un’occasione di allargamento di fruizione. Noi a fare un fumetto ci mettiamo mesi e, per quanto mi riguarda, nelle pagine c’è un po’ di più di quello che viene rilevato talvolta. Nel senso che lo sfondo non viene messo a caso, lo spazio e il tempo sono elementi fondamentali di una narrazione, specie per la mentalità, ripeto, occidentale. Questo aspetto si può notare anche in ambito medico psichiatrico, per fare un’ulteriore esempio.”
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Però mi viene da pensare che, negli anni più remoti del fumetto Disney, le ambientazioni non erano così piene di dettagli come oggi, vuoi perché i tempi erano diversi e le produzioni del fumetto erano diverse. Per quanto riguarda Topolino Magazine, diciamo che l’esplorazione dello sfondo e dell’ambiente è diventata una conseguenza dei tempi.
“Assolutamente sì. Due cose. In generale, i fumetti di alcuni decenni fa sono meno saturi di dettagli. Per quanto riguarda il fumetto Disney, veniva lasciata la preponderanza all’azione-recitazione dei personaggi. Ricordo che Carpi mi diceva di non aver il timor vacui, cioè: lascia respirare la pagina. Aveva perfettamente ragione, dal suo punto di vista. È un modo di vedere, non è giusto o sbagliato, perché riflette una visione del mondo. Ve ne possono essere altre.
Oggi in generale, anche nel fumetto Disney, vi è un tendenziale sguardo maggiore verso un riempimento dello sfondo. Di nuovo, come accennavo prima, anche il modo di trattare lo sfondo da una parte può soddisfare l’occhio di alcuni, perché si vedono più cose, ma soprattutto perché anche questa tensione può essere rilevata guardando allo specifico storico occidentale che ragiona sulla quantità che va implementata ad infinitum.
È il pensiero di civiltà che guida l’azione, non il singolo individuo. Anche per questo motivo nelle occasioni, diciamo pubbliche, troverei interessante e serio intessere con le persone una ulteriorità argomentativa.
Anche con PK-Danger Dome c’è stato un recensore che ha detto di amarne gli scenari. Gli scenari stessi diventano un personaggio. Ecco perché dicevo prima che la forma determina il contenuto: anche il modo di trattare le scenografie, le inquadrature, il modo di coprire quella particolarità del fumetto che è lo iato, cioè il vuoto tra un frame e l’altro, in rapporto a come sono trattati i personaggi, possono aiutare a rinforzare e ad allargare l’afflato di fondo della storia stessa. Il respiro di cui sopra. Anche le mani sono dei personaggi.
Fanno molto bene gli appassionati di PK a vedere se la tecnologia, i personaggi e la storia sono coerenti. A mio avviso, vi sarebbe anche l’occasione di poter allargare il piacere di leggere osservando anche il lavoro che viene fatto in generale, altrimenti si rischia, non solo con il fumetto, quel comportamento terrificante che si chiama consumo.”
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Cioè che si guardi l’immagine senza godersela?
“Come andare vedere uno spettacolo teatrale di due ore: ci si può divertire, ma non si possono vedere tutti i dettagli che gli autori hanno proposto come mosaico di significato in ordine di densità. Se guardo per la prima volta un film di Stanley Kubrick (solo un esempio riconoscibile magari a molti), non posso umanamente essere in grado di apprezzare tutto quello che è stato messo là dentro, perché questi sono registi che non lavorano a caso, ci vogliono più visioni.
Dire alla prima visione ‘Mi piace o non mi piace’, salta un arco di dettagli che hanno richiesto tempo, cura, attenzione, fatica: lì sono in zona consumo. Ora, va benissimo il consumo, è il nostro mondo, ma attenzione: se noi abbiamo questo atteggiamento, la mente si abitua a quella predisposizione di comportamento su tutto. Si vive una cosa e subito ne vogliamo un’altra. Cosa stiamo facendo? Alla lunga, in realtà, con questa mentalità in generale si finisce nel consumare se stessi, diventa un loop, una nevrosi. Ancora qui, la forma è il significato.
Il sostare un po’ di più sulle cose è un’indagine sulla nostra interiorità. Qui sono d’accordo con quel signore intelligente e grandissimo professionista che si chiamava Gianni De Luca. Se andiamo a leggere alcune sue interviste, quando parlava di fumetto partiva dall’arte preistorica. Giustamente ciò che noi facciamo, che sia un disegno su un muro, il modo in cui costruiamo un’automobile o il modo in cui parliamo, è determinato dalla nostra visione del mondo che ha una scaturigine lontana. Determina la nostra identità.”
Un momento di riflessione verso un arricchimento personale.
“Sì. Poi bisogna vedere se come professionista si è cosciente o meno di questo, e come lo si vive, il fumetto. Il professor Massimo Cacciari, sulla scorta di Platone, Kant ed Hegel, riguardo all’arte, ci ricorda che l’artista che non collega il lavoro con la vita (ne fa cioè pura espressione di ego) non conta nulla. Espressioni di sé, spontaneismi, qui anche il prof. Galimberti ci aiuta, si risolvono solo in luoghi di depressione.
Penso che il fumetto sia considerato oggi un arte di Serie B perché la mentalità media di chi lo fa è di Serie B. Perché lo vive come un modo di comunicazione secondario a prescindere. Questo lo diceva tra l’altro anche de Luca, ma non solo lui.”
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Non l’avevo mai considerata questa prospettiva. Si tende sempre a dire che questo discorso è legato al lettore, che giudica un fumetto di Serie B, ma mai mi sarebbe venuto da pensare che anche all’interno si potevano venire a creare queste dinamiche.
“‘Hai un linguaggio da fumetti’ oppure ‘Un linguaggio da Topolino’, che è un dispregiativo, locuzioni non nuove. Non bisogna fare confusione tra il cosa e il come. Nessuna cosa in sé ha un valore, siamo noi che attribuiamo valore alle cose. E ci sono forme artistiche a cui non diamo peso o diamo un peso diverso.
Per esempio qui in Occidente – non è un insulto -, c’è la moda di farsi i tatuaggi. Va benissimo. Sappiamo però dall’antropologia e dall’etnografia che i tatuaggi non appartengono alla nostra cultura, appartengono a culture altre, a quella aborigena australiana, ad esempio. Per loro quella pratica simboleggia vita, è agganciata al vivere, alla sopravvivenza, all’amore, alla morte e, qui il passaggio, riferita al gruppo sociale. Non è solamente ornamentale, solipsistico, non è solo consumo, appunto.
Lavorare sui codici spazio-tempo e sui riferimenti di civiltà è uno sguardo sulla mente. Amplifica il modo in cui noi stiamo guardando la nostra mente, cioè la vita.”
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L’hai citato prima, X-Mickey, un progetto che comunque oggi se ne parla poco, ma in passato ha avuto dei lettori abbastanza affezionati. C’è qualche retroscena su questo fumetto che ci puoi raccontare? Com’era organizzato il lavoro su X-Mickey, molto simile al team di PK?
“Il progetto era già in piedi ed erano già usciti dei numeri mensili da prima che iniziassi a disegnarlo anch’io. In quel tempo stavo disegnando una storia di Paperino. Mi chiama Claretta Muci, direttore di Topolino, mi chiede di lasciar perdere qualsiasi cosa stessi facendo per disegnare 12 tavole con X-Mickey, volevano farla pubblicare su di un inserto del Corriere della Sera. In genere cerco di non dire mai di no perché se la persona è gentile e il lavoro è interessante si fa: vediamo che contributo possiamo apportare e vediamo di divertirci un po’.
Mi hanno mandato la documentazione, ho disegnato la storia, l’ho inviata e ho ripreso a fare ciò che stavo facendo. Due giorni dopo, sempre Claretta Muci mi chiede di disegnare una storia intera. L’ambientazione mi piaceva, perché era un po’ dark con possibilità di smarginare nel fantastico, nel poetico.”
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Ambientazioni comuni nelle tue tavole.
“Lì c’è, seppur con moderazione, il mio amore per i chiaroscuri, che adesso, nel terzo volume PK, si vedranno un poco di più. L’uso del chiaroscuro è una tecnica complicata. Secondo me X-Mickey era abbastanza adatto, ci poteva stare.
Ho disegnato un paio di storie e mi sono ritrovato dopo qualche mese ad essere l’unico disegnatore della serie. Se non ricordo male, gli ultimi 6/8 numeri mensili li ho disegnati tutti da solo, in alcuni passaggi con grossi problemi di tempo perché una collana mensile con un autore solo è assurdo.”
Tutto sulle spalle di una persona…
“Era insostenibile, mi chiamavano 2/3 volte al giorno. L’ho fatto lo stesso perché mi stavo divertendo e ho cercato di aggiungere cose diverse storia per storia per vedere se venivano accettate, proponendo una strutturazione ulteriore in rapporto a ciò che era stato pubblicato sin lì.
Cerco di amplificare la forma, la densità dei personaggi e della serie con quello che io penso di poter dare in rapporto alla mia visione del mondo. Il fatto che Disney in quel momento mi abbia lasciato da solo a disegnare – e ne sono contento – può darsi che abbia avuto un significato.”
Mi viene da pensare al fatto che tu dipingi. Nella tradizione di paperi e topi, ricordo dei quadri incredibili di Carl Barks e Floyd Gottfredson, che di tanto in tanto riproponiamo. Questi lavori hanno influenzato il tuo percorso artistico?
“No, perché io stesso dipingo da molto tempo, anche se lo faccio in modo non continuativo. Ho sempre riferito anche qui a quello che ho studiato e che mi piace seguire. Ho scoperto dopo i dipinti di Barks, che adesso ho più presenti. Quando parliamo di pittura figurativa, parliamo di segno e di colore. Qui, in parte, il segno c’è già, ed è quello Disney. Quando parliamo di colore parliamo invece di luce. E luce riferisce anche a temperatura cognitiva, narrativa ed emotiva: è come uno spartito musicale.
Barks aveva una sensibilità notevole per la palette calda, morbida. I miei riferimenti sono altri, non solo figurativi ma anche teoretici. Anche oggi, lavorando sui chiaroscuri con PK, sto pensando alla luce e, in parte, a un fumetto e a una pittura generale che fanno parte di quella che noi definiamo storia dell’arte – ma questa è una mia immaginazione.”
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Tornando al fumetto, siamo abituati a vederti con una certa impostazione. Però hai avuto modo di lavorare in opere fuori dai tuoi canoni, come Quando Ciccio di Salvagnini. Com’è stato realizzare questa tipologia di storia, che comunque richiedeva un linguaggio più leggero?
“Quando ho occasione di disegnare in quella modalità di narrazione all’inizio mi devo un attimo fermare per cercare di trovare un equilibrio possibile tra questa mia tendenza e un Disney più accettabile, classico e leggero, nel senso bello. Già solo quello è un impegno, è un lavoro, per me è un’occasione di riequilibrarmi e riallenarmi a codici più convenzionali. È un esercizio mentale, che poi aiuta a guardare in modo diverso quello che fai in altri momenti. C’è sempre un dia-logos continuo.”
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Uscire un po’ dai propri canoni.
“Guardarsi un po’ attorno in senso antropologico. Adesso, per esempio, che ho appena finito PK-Ur Evron, ho lavorato a livello di rifinitura e anche un po’ sul piano spazio-tempo. Da un parte, riferito a quello che accennavo prima, perché ho visto che è stato accettato, Panini mi ha lasciato spazio come fece Claretta Muci, dall’altra vedo quanto si può allargare senza rimanere fermo sui propri codici che, in realtà, non sono propri ma del plesso cognitivo di civiltà che li guida dalla radice. Questo ce lo spiega bene Kandinskij nel suo testo Punto linea e superficie.
Mentre disegno io mi sto guardando, mentre fai qualcosa tu ti stai guardando, perché lo fai in base a quello che hai nella mente, e ciò che fai dialoga con te. Si potrebbe dire, come nelle parole di Carlo Sini, che è il lavoro che fa l’uomo, non il suo contrario. E questa per me è una cosa molto affascinante. Il disegno è un veicolo molto potente in questo senso. Io la vivo così. Può sembrare semplice e riduttiva, se avessimo con noi una pagina o un dipinto forse potremmo allargare l’argomentazione.”
Una parola giusta che possiamo utilizzare è ‘introspezione’.
“L’introspezione la facciamo facendo le cose. Se poi non facciamo un’opera di riflessione su questo nostro modo, allora lì siamo nell’inconsapevolezza, viviamo a nostra insaputa. Esempio brutale, cioè sintesi: ho scelto questo lavoro per amore e passione, potevo fare altro. Mettere dentro questa attenzione fa una notevole differenza. Se abbiamo tanti individui che fanno un qualsiasi lavoro per pagare le bollette e avere una legacy sociale, la domanda è: che tipo di società stiamo alimentando? A mio avviso ogni scelta nella vita dovrebbe avere un sottofondo esistenziale.”
A proposito di lavoro: abbiamo intervistato tantissimi sceneggiatori, meno i disegnatori. Ci puoi descrivere il rapporto che c’è tra uno sceneggiatore e un disegnatore?
“Dipende dai paesi di produzione. Negli Stati Uniti hanno una tendenziale impostazione a catena. Faccio riferimento alle produzioni seriali: non è infrequente che su una pagina, a livello di china e di disegno, ci mettano mano 3/4 persone.
In Italia c’è ancora l’impostazione in base alla quale il disegnatore inizia e finisce la pagina. Mi vengono in mente in Dylan Dog Giuseppe Montanari ed Ernesto Grassani, ma è una cosa piuttosto rara in Italia. Abbiamo un’altra storia e storia significa psiche. Negli USA è una pratica legata alla loro mentalità, alla produttività, all’efficienza, all’obiettivo. Noi italiani abbiamo una tradizione più artigianale.
Il rapporto con Roberto Gagnor, ad esempio, si basa sulla lettura della sceneggiatura, sul sentirci al telefono: ne parliamo un paio d’ore, gli esprimo dubbi, gli faccio domande anche per sentire dal modo in cui mi parla qual è il suo sentire, nel frattempo butto giù degli appunti.
Poi comincio a fare dei rough, glieli faccio vedere e continuando a discuterne. Il modo in cui io disegno non è il modo in cui lui poteva immaginare PK, quindi mi interessa sapere se il modo in cui sto interpretando la sua sceneggiatura può in qualche modo soddisfare un suo immaginario. Prima di iniziare a disegnare Ur-Evron mi sono preso qualche giorno di riflessione per decidere che tipo di sguardo volevo trasfondesse dalle pagine.”
Ultima domanda, secca: qual è il tuo personaggio Disney preferito?
“Pippo. Carl Barks in un’intervista ebbe a dire che Pippo è un personaggio stupido. Io non sono d’accordo, perché secondo me Pippo è un personaggio che ha un piede nella razionalità e uno nell’irrazionalità, e lo si vede dal suo comportamento. Ragione, ratio, vuol dire calcolare: la calcolazione e la razionalità sono strumenti che ci aiutano a vivere, ma terrei anche presente che l’essere umano fondamentale non è razionale.
Io non mi innamoro per razionalità, ma per irrazionalità, è l’essenza dell’essere umano. La ratio è uno strumento successivo per potersi orientare al meglio in quello che si fa, ma non è la verità dell’essenza umana. Le nostre cose più belle non hanno nulla a che vedere con il far di conto. Pippo è una sintesi anche qui, a mio avviso, esemplare di quello che è l’essere umano visto attraverso i personaggi Disney.”
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Angelo Andrea Vegliante e Mattia Del Core
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