Può un film scatenare critiche di livello internazionale e intrecciarsi con questioni riguardanti i diritti umani? Sì, ovviamente. Stavolta, però, la relazione tra Mulan, Hong Kong e Cina è abbastanza seria e complessa, tanto da richiedere una lunga spiegazione. In questa sede, faremo il punto della situazione e cercheremo di capire come mai il nuovo live action di The Walt Disney Pictures è sotto l’occhio del ciclone, così come l’azienda madre.
Mulan prima di Hong Kong: un film più volte rimandato
No, non stiamo parlando di Mulan del 1998, bensì del remake di The Walt Disney Pictures datato 2020, basato sull’omonimo film d’animazione. Fin dalla sua nascita, però, la pellicola ha subito enormi ritardi nella distribuzione.
Inizialmente, il film doveva essere presente nei cinema dal 2 novembre 2019, salvo poi essere posticipato a causa del lancio di un’altra pellicola, Lo schiaccianoci e i quattro regni. Perciò, nuova data: 27 marzo 2020 e tanti cari saluti. Ma stavolta a mettersi in mezzo è stata la pandemia da Coronavirus: cinema chiusi, blocco della distribuzione.
A fine quarantena, l’ottimismo imperversava, ma dopo altri rinvii e altre date mai confermate si è arrivati al 4 settembre 2020, giorno d’uscita di Mulan su Disney+ (al costo di 21,99 euro). Data, in cui, tutto ha avuto inizio (o quasi).
Mulan e Hong Kong: un intreccio internazionale
Critiche, proteste e richieste di boicottaggio: dopo le prime 24 ore dall’uscita su Disney+, Mulan ha fatto parlare di sé in mezzo mondo – e non per meriti o demeriti artistici.
Per comprendere come mai è scoppiato il caso, dobbiamo tornare indietro nel tempo, precisamente nel 2019, quando la 33enne attrice protagonista del film e star della Cina, Liu Yifei, si è lasciata andare ad alcune dichiarazioni politiche su Weibo:
Sostengo la polizia di Hong Kong, ora potete picchiare anche me. Che disgrazia per Hong Kong!
Da qui nacquero i primi tentativi di boicottaggio da parte degli attivisti pro-democrazia dell’ex colonia britannica, che però non trovarono ampia risonanza internazionale.
Perché parole di questo tipo hanno scatenato polemiche che hanno attualmente un effetto dirompente? Per rispondere alla domanda, serve un breve contesto storico.
Cina e Hong Kong sono due entità formalmente unite da un principio noto come “Un Paese, due sistemi“, una formula proposta nel 1971 dall’allora leader cinese Deng Xiaoping al Regno Unito con lo scopo di applicare la sovranità cinese all’allora colonia britannica. Nel 1997 tale disegno si concretizzò: da un lato, abbiamo la Cina come sovrano politico; dall’altro, Hong Kong con una speciale autonomia (con più ombre che luci). Durata del contratto: ben 50 anni, cioè fino al 2047. Dopo questa data, però, nessuno sa cosa accadrà.
A regolare ancora di più il rapporto tra i due paesi c’è la Basic Law, la Legge Fondamentale (nota anche come la mini-Costituzione di Hong Kong), in vigore proprio dal 1997, che certificherebbe un alto grado di autonomia per l’ex colonia britannica – almeno su carta, in quanto comunque Pechino controlla numerosi aspetti governativi e amministrativi di Hong Kong, proprio in virtù delle numerose ambiguità espresse sia della normativa che della formula “Un Paese, due sistemi”.
L’assenza di un futuro certo per Hong Kong ha dato vita a movimenti e attivismi filo-democratici, tanto che il 2014 è stato segnato da diverse iniziative di piazza che hanno portato ai 79 giorni delle proteste della Rivoluzione degli Ombrelli, organo che chiedeva a gran voce l’adozione del suffragio universale.
Dalla legge sull’estradizione alla legge sulla sicurezza nazionale
Nel 2019, la richiesta di democrazia – e di elezioni democratiche – è tornata a farsi sentire a livello internazionale proprio grazie al Movimento degli Ombrelli. Ricorderemo tutti, bene o male, le immagini delle manifestazioni non violente, dei cortei, delle occupazioni di uffici e aeroporti e di alcuni tafferugli tra cittadini e Forze dell’Ordine che hanno segnato le cronache dell’ex colonia britannica, creando non pochi problemi alla governatrice filo-cinese di Hong Kong Carrie Lam, spesso sull’orlo di abbandonare la scena politica locale.
In quell’occasione, la miccia che fece saltare in aria i delicati equilibri interni fu una proposta avanzata dalla stessa Lam (idea che tanto piaceva alla Cina): una legge sull’estradizione che avrebbe dato la possibilità all’amministrazione locale di estradare chiunque fosse sospettato di crimini gravi. Gli oppositori – principalmente gli attivisti pro-democrazia – giudicarono il disegno di legge pericoloso, in quanto avrebbe messo a repentaglio i diritti umani fondamentali di personalità e cittadini pubblicamente contrari alla Cina.
A ogni modo, la legge sarà ufficialmente sospesa nel giugno 2019 e non vedrà mai luce. Di contro, però, nessun segnale arriverà da parte dell’esecutivo di Hong Kong e della Cina in favore della democrazia. Da questi eventi, l’organizzazione pro-democrazia Demosisto acquisì maggiore notorietà, grazie soprattutto ai fondatori e ai volti di punta, tra cui Nathan Law, Joshua Wong e Agnes Chow. Fin dalla sua nascita, Demosisto ha lavorato con un preciso obiettivo: realizzare un referendum per determinare la sovranità di Hong Kong.
Sarà la pandemia da Coronavirus ad allontanare l’interesse dell’opinione pubblica dalle vicende di Hong Kong, che però torneranno a farsi sentire il 28 maggio 2020, quando la Cina confermerà che sta lavorando a una possibile legge sulla sicurezza con lo scopo di limitare soprattutto le azioni degli attivisti per la democrazia.
Il 30 giugno 2020 la nuova legge sulla sicurezza nazionale è approvata, addirittura con validità retroattiva. Questi eventi portano l’organizzazione Demosisto a sciogliersi, mentre Nathan Law e Joshua Wong lasceranno Hong Kong proprio per difendersi dalle conseguenze della nuova norma.
Parallelamente, cominciano le prime indagini (e i primi arresti) sui “responsabili” delle manifestazioni del 2019: come Agnes Chow, inizialmente arrestata (poi liberata su cauzione) per un’iniziativa del 2019 legata alla richiesta di autodeterminazione per l’ex colonia britannica. Adesso rischia l’ergastolo.
Grazie a questo breve quadro storico, possiamo comprendere come mai le parole di Liu Yifei (attrice che veste i panni di Mulan) abbiano fatto tanto clamore già un anno fa e, ancora oggi, sono usate per (ri)lanciare critiche contro la pellicola. C’è chi ha asserito, tra l’altro, che le sue fossero dichiarazioni obbligate dalla Cina, ma al momento si tratta solo di speculazioni. Nel frattempo, gli attivisti pro-democrazia di Hong Kong hanno deciso di lanciare un nuovo volto per Mulan, scegliendo proprio Agnes Chow e dandole l’appellativo di “Our Mulan“.
Da tutto ciò, infine, si è nuovamente diffuso tra i vari social network un hashtag, già noto nel 2019: si tratta di #BoycottMulan. Numerose personalità legate ad Hong Kong hanno aderito a questo movimento online – nato proprio nell’ex colonia britannica -, come Nathan Law e Joshua Wong. In aggiunta, l’iniziativa ha trovato alleati anche in Thailandia e Taiwan.
This film is released today. But because Disney kowtows to Beijing, and because Liu Yifei openly and proudly endorses police brutality in Hong Kong, I urge everyone who believes in human rights to #BoycottMulan. https://t.co/utmP1tIWNa
— Joshua Wong 黃之鋒 ???? (@joshuawongcf) September 4, 2020
Why we should #BoycottMulan? It’s about hypocrisy. In Hollywood movies, they claim to embrace social justice. In fact, they kowtow to autocratic China disgracefully. They shamed themselves by upholding values they don’t even believe in. Movies, should be more than money.#FreeHK pic.twitter.com/Xmgdyl0NOj
— Nathan Law 羅冠聰 (@nathanlawkc) September 7, 2020
Non solo Mulan e Hong Kong: c’è anche lo Xinjiang
C’è un altro fatto – decisamente più grave – che coinvolge direttamente la The Walt Disney Pictures, e che sta animando ancora di più il movimento #BoycottMulan. Nei titoli di coda della pellicola è possibile notare che alcune scene di Mulan sono state girate nello Xinjiang, una regione cinese tristemente nota per numerose violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo locale nei confronti delle minoranze etniche, tra cui gli uiguri musulmani.
Mulan specifically thank the publicity department of CPC Xinjiang uyghur autonomous region committee in the credits.
You know, the place where the cultural genocide is happening.
They filmed extensively in Xinjiang, which the subtitles call “Northwest China”#BoycottMulan pic.twitter.com/mba3oMYDvV
— Jeannette Ng 吳志麗 (@jeannette_ng) September 7, 2020
Basti pensare, ad esempio, alle inchieste della testata giornalista americana Associated Press, che hanno rivelato come la Cina stia effettuando una campagna di sterilizzazione coatta e coercitiva proprio nei confronti degli uiguri, una pratica giudicata dall’opinione pubblica internazionale come una vera e propria pulizia etnica.
Oltretutto, lo Xinjiang è stato spesso accusato di essere la sede di campi di concentramento e gulag occultati come campi di rieducazione, dove vengono rinchiusi attivisti, avvocati e minoranze che si dicono contrari all’ideologia del governo cinese.
Spesso la comunità internazionale ha chiesto spiegazioni alla Cina, la quale – attraverso le parole dei rappresentanti del Ministero degli Esteri – ha asserito che certi racconti sono delle gravi distorsioni dei fatti. Nonostante ciò, già nel 2018 l’Onu bocciò la Cina per via delle troppe violazioni dei diritti umani, soprattutto nei confronti delle minoranze etniche e religiose.
Insomma, l’assenza di Mushu nella pellicola sembra essere veramente l’ultimo dei problemi per Mulan.
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Angelo Andrea Vegliante
Immagini © Disney su Mulan | Pickline su donna di Hong Kong
Fonte immagini: Cinematographe | Tech Princess | Pickline