Se diciamo Enrico Faccini, sicuramente vi verranno in mente i numerosi Ciak che hanno accompagnato la produzione di Topolino Magazine. Ma l’artista non è solo questo: ci sono le storie silenziose, le stramberie di Paperoga, il Topolino denso di noir e intrighi… Insomma, Enrico Faccini è molto di più, ed è sicuramente un tassello importante dell’evoluzione del fumetto Disney in Italia.
Per conoscerlo più approfonditamente, abbiamo pensato di contattarlo e fargli qualche domanda in merito alla sua attività artistica, alla collaborazione con Casty, all’attualità culturale e quali spunti danno linfa vitale alle sue opere.
Benvenuto Enrico Faccini. Partiamo subito parlando dei Ciak, lo strumento che ti ha decisamente portato nei cuori della nostra community e che ha dato lustro a tanti elementi, come l’onomatopea Squaralaraquack, un robot che dice “sei un citrullo” e Zio Paperone vestito da roditore. Quanta ‘improvvisazione’ c’è nella realizzazione di tavole così inaspettate?
“La vena dei ciak fa parte del mio pedigree di lettore (di fumetti e altro). Da bambino leggevo ‘Topolino‘, cui i miei genitori mi avevano con lungimiranza abbonato. A parte ‘Topolino’, possedevo la collezione quasi completa degli Oscar Fumetto Mondadori, in gran parte raccolte delle strip americane pubblicate su Linus: Mort Walker, Johnny Hart, Frank Dickens, Howard Post, Tom K. Ryan e svariati altri.
Da lì ho metabolizzato probabilmente il gusto per la gag rapida: premessa, svolgimento e colpo di coda (possibilmente) spiazzante. Non parlerei di improvvisazione: ci vuole un’idea che spunta in un momento di libertà mentale o da osservazioni, sensazioni captate in giro, e poi modellare con pazienza artigianale, limando vignette e dialoghi, con battute sperabilmente fulminee. Si tratta di scomporre e ricomporre gli elementi e trovare la soluzione più efficace. Poi, si può fare sempre meglio.”
Un altro dei tuoi marchi di fabbrica sono le brevi storie mute, a volte oniriche, a volte surreali, ma sempre divertentissime. Si nota una forte influenza delle dinamiche e dello stile dei cortometraggi classici: addirittura in un paio di occasioni ti ci ispiri apertamente (le caramelle Bloppblapp, l’ultima goccia…). Quanto sono importanti e quanto influiscono nel tuo lavoro i corti d’animazione?
“Le influenze ci sono ma sono ormai inconsapevoli, e in genere vado a ruota libera partendo da materiale che invento io o che rielaboro, come per i ciak, da spunti quotidiani, suggestioni o altro. Può venire anche un’idea guardando un film, indirettamente salta fuori un’associazione di idee che mi porta su una strada inattesa.
Come per la domanda precedente, ho un background da spettatore che risale all’infanzia, con predilezione per gli spunti surreali: tutti i lavori di Friz Freleng e Chuck Jones, i corti con Wile E. Coyote. Amo molto anche lo stile di Ward Kimball, il folgorante corto ‘Think Pink’ con la Pantera Rosa, Osvaldo Cavandoli (che ho avuto la fortuna di conoscere, e al quale ho anche rischiato di rompere il banco di ripresa – ma per fortuna non se ne è accorto), la serie ‘The Square Knights of the Round Table’… La lista sarebbe lunghissima, ma ormai credo di camminare con le mie gambe.”
Negli ultimi anni c’è stato un vero e proprio exploit delle storie silenziose. Quanto c’è di slapstick in queste opere e come mai, secondo te, hanno riscosso un tale successo?
“Per quanto riguarda lo slapstick, è per me un fatto istintivo e non premeditato. Quindi non saprei rispondere in termini razionali: lo faccio, e basta. Per quanto riguarda il successo… Nessuno ne ha la formula. Il mio metodo di lavoro è fare una cosa divertendomi, ‘sentendola’ di pancia e mettendoci gli argomenti e situazioni che più mi appassionano: allora ne esce una storia con il feeling giusto, di qualsiasi genere, dal comico al thriller. Se mi diverto io (o mi inquieto io), è probabile che il lettore se ne accorga e si diverta (o si inquieti) anche lui.”
Veniamo al mondo dei paperi: non è un mistero che adori Paperoga, un personaggio così sopra le righe da potergli far fare diverse cose in diversi scenari. È lui il tuo personaggio preferito? Ti riconosci un po’ in questo personaggio oppure ci sono proprio lati del tuo carattere?
“Il discorso di Paperoga rientra nel temperamento dell’autore. Non è che io sia particolarmente innamorato del personaggio, è semplicemente che io sono per natura portato a immaginare situazioni surreali e comiche che trovano nei paperi gli interpreti ideali (anche se, facendo un esame di coscienza, devo ammettere che qualche bizzarria del personaggio mi appartiene. E mi riconosco una certa crudeltà nell’infierire su questi personaggi).
Ciò non significa che io non ami Topolino. Io adoro il Topolino delle grandi storie scritte da Walsh e altri e disegnate da Gottfredson. Io adoro il Topolino di Romano Scarpa. Il problema con Topolino? Non è un personaggio propriamente comico (lo è Pippo, ma con sfumature molto particolari): Topolino è un attore brillante da commedia. Nelle grandi storie di Walsh/Gottfredson, Topolino era ispirato agli attori brillanti/drammatici dell’epoca, come Cary Grant o James Stewart (Casty ha acutamente modernizzato il paragone, avvicinando Topolino ad Harrison Ford).
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Di conseguenza, il personaggio richiede trame molto geometriche, meccanismi a orologeria molto precisi, complessi risvolti narrativi, tutte cose alle quali non sono – ahimé – molto portato: mi riesce relativamente facile immaginare situazioni surreali, o di insolito nel quotidiano nello stile di Richard Matheson, ma fatico a trovare la ‘quadra’ razionale in cui inserire tali situazioni, in modo che tutto alla fine si risolva senza grossi buchi narrativi (anche se, a volte, una certa dose di sospeso, di “non detto” e lasciato alla fantasia del lettore può essere intrigante). Ho però vari spunti nel cassetto… Spero un giorno di riuscire a organizzarli in modo compiuto.
E grazie per non avermi chiesto di Sgrizzo.”
Un personaggio che invece è totalmente farina del tuo sacco è Timoteo Piccione, un piccione estremamente curioso e rompiscatole, inopportuno e talvolta impudente. Quanto c’è di Faccini in Timoteo Piccione? È nei tuoi piani farlo tornare?
“Il personaggio non è totalmente farina del mio sacco. Timoteo è nato per scherzo, da una caricatura ‘paperizzata’ fattami da Andrea Freccero durante un periodo di lavoro trascorso in comune (ora, il fatto che io assomigli a un piccione non lo so, non posso vedermi in terza persona se non filmandomi: la caricatura faceva parte degli amichevoli sfottò che si fanno in qualsiasi gruppo di amici e/o colleghi).
Gira che rigira, l’idea ha cominciato a frullarmi in testa ed è poi quagliata in due sceneggiature, disegnate splendidamente da Andrea. Tengo a chiarire che io non mi comporto come Timoteo Piccione, tuttavia il personaggio riflette una situazione che mi è capitato di notare nella vita reale: un individuo che si trova come un pesce fuor d’acqua in una situazione sociale con sconosciuti e vorrebbe interagire ma non sa come fare (anche perché gli interlocutori – abbastanza maleducatamente – parlano di cose loro, a lui non note, escludendolo dalla conversazione), pertanto che fa, questo individuo? O sta zitto, o chiede chi cosa come perché, cercando di inserirsi e risultando inopportuno (gli altri sono comunque maleducati).
I piani per farlo tornare? Qualche idea ci sarebbe. Tuttavia, per correttezza (e perché a me piacerebbe di più) il soggetto andrebbe poi disegnato da Andrea, il quale in questo periodo è molto occupato, per cui non so.”
Oltre a Timoteo, abbiamo trovato spesso personaggi di secondo livello di tua creazione, come ad esempio Capperone Paperone. Quanto l’universo dei paperi si presta alla realizzazione di figure così surreali e imprevedibili?
“Tutto l’universo Disney si presta all’introduzione di comprimari (anche one shot) variamente surreali. È la sua stessa natura. Presente la galleria di comprimari di Gottfredson o Barks? Si tratta di ‘maschere’ che rappresentano tic, mode, ossessioni, vizi e virtù sotto gli occhi di tutti.”
In linea generale, nel mondo dei paperi sembra esserci molta spensieratezza e dinamicità, nel mondo dei topi più toni cupi e noir: sei abituato a vedere Topolino come un semplice indagatore del mistero o è qualcosa di più?
“Come detto poco fa, Topolino è l’uomo della strada come vorremmo essere (Paperino è l’uomo della strada come noi siamo; Paperoga è sotto la media di come noi siamo). Di conseguenza, Topolino può fare di tutto: commedia, fantastico, noir. Quello che secondo me non dovrebbe fare è il comico slapstick. Quello lasciamolo fare ai paperi.”
Con Casty hai trovato un’intesa molto proficua, spesso giocata sul campo del perturbante e del surreale a tinte scure. Queste sono delle atmosfere a te particolarmente care, dato che sei un grande fan di film horror e di fantascienza anni 70 e 80. Ci racconti un po’ di questo sodalizio? Avete altro in programma? Quali sono le tue (vostre?) opere di riferimento?
“Il sodalizio è nato dalla scoperta di avere radici e gusti molto simili, in particolare per quanto riguarda la ‘visione’ del personaggio di Topolino e del suo spirito pragmatico e ottimista del middle man, nelle grandi storie americane (e di Scarpa), storie con doppia chiave di lettura, per i giovanissimi e per gli adulti… Con qualche deragliamento nell’inquietante, un pizzico di suspense, colpi di scena alternati a sequenze comiche, bislacche, imprevedibili.
Se la memoria non mi tradisce – sono passati diversi anni – la prima collaborazione fu ‘Topolino e il dottor Tick Tock‘. Avevo letto un bellissimo racconto di Harlan Ellison (‘Repent Harlequin!, said the Tick Tock Man’) il cui titolo mi aveva incuriosito (so che c’è un film intitolato ‘In Time’, ispirato allo stesso racconto), e avevo iniziato a stendere qualche idea. Per il problema già detto dei miei limiti, avevo disegnato delle sequenze che mi parevano molto avvincenti e spiazzanti, ma non riuscivo a organizzarle concretamente.
Con Casty ci eravamo già sentiti, e da questi spunti che a lui sono piaciuti, lui ha scritto una bellissima storia sotto forma di storyboard, dove ha scartato alcune idee aggiungendone e ampliandone altre. Ci si trovava in un momento particolare nei rapporti con l’editore, e – un po’ per sfizio e un po’ per gioco – io ho ridisegnato rapidamente lo storyboard a pennarello, quindi Andrea ha aggiunto i finti retini grigi.
Il risultato dell’esperimento – nonostante l’imprecisione dei disegni non ‘ufficiali’ – era fascinoso. Ne abbiamo ricavato una trentina di albetti spillati, con l’intento di proporre un ‘demo’ all’editore per saggiare la possibilità di una piccola testata extra. Il progetto non è andato in porto, ma la storia è stata pubblicata qualche anno dopo, con i disegni di Andrea. Insomma, così è iniziato, per proseguire con altre storie molto interessanti, tra le mie preferite ‘Topolino e il Rampiro di Transvitania‘ e ‘Topolino e il teatrino di Bambolier‘. Per quanto concerne il futuro della nostra collaborazione… molto volentieri. Tuttavia, la vita di questi sodalizi dipende anche da vari altri fattori. Vedremo.
Per quanto riguarda storie con Topolino, le opere di riferimento (da parte mia) oltre a quelle ovvie, sono tutto il cinema thriller/fantastico/surreale/magico/mistery. Per cui si parte dal cinema espressionista tedesco, la fantascienza anni Cinquanta (i temi dell’invasione silenziosa o del vicino di casa che non è quello che sembra), Hitchcock, Polanski, Tourneur, Spielberg, Carpenter, Burton, chi più ne ha più ne metta.
Poi ci sono le serie televisive (magari evitando di inseguire quelle contemporanee e andando a pescare tra quelle del passato, come ‘Twilight Zone’). In narrativa, Matheson, King, Scerbanenco, tutto il filone noir. Poi, si può giocare anche con generi più umoristici: Wilder, P.J. Wodehouse, J.K. Jerome… Il serbatoio è infinito. Per fortuna.
Qui apro una parentesi e propongo una riflessione. I bambini – nonostante le tesi del Moige e le ossessioni politically correct degli ultimi anni – sono fortemente attirati dal lato oscuro. Ricordo che nella mia infanzia e adolescenza, quello che mi attirava era proprio il bizzarro, lo strano, il fantastico, il proibito e a volte il macabro (il passaggio biblico nel Mar Rosso, la stanza segreta di Barbablù, il mostruoso pescecane di Pinocchio, l’Orca che nell’Orlando Furioso insidia Angelica incatenata, le fiabe dei fratelli Grimm, “La cosa da un altro mondo” di Hawks e Nyby… ).
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Ricordo che, bambino, ero solito coprire le illustrazioni più spaventose con un foglio di carta e muovere lentamente il foglio scoprendo poco a poco l’immagine, per esaminarne solo un particolare per volta o chissà, suscitare un ingenuo effetto di suspense.
Bisogna ovviamente fare molta attenzione a come e se proporre argomenti come violenza, sesso, morte, malattia, dei quali i bambini non hanno la maturità necessaria a comprenderne la portata e le conseguenze. Tuttavia il bambino è un piccolo essere umano con tutte le caratteristiche proprie dell’essere umano: ha in più una buona dose di crudeltà incontrollata, poiché dice in faccia quello che pensa senza l’ipocrisia degli adulti, ed è capace di molta (inconsapevole?) violenza.
Siamo animali mammiferi, e come i cuccioli di tutti i mammiferi giocano alla lotta tra di loro, tal quale gli umani fanno durante l’infanzia e l’adolescenza. Una certa dose di paura, rabbia, aggressività e violenza sono necessarie a sviluppare la capacità di reagire e a misurare la propria forza.
Chi si schiera contro il bullismo ha molte ragioni: la violenza però c’è sempre stata e sempre ci sarà, anche tra gli adulti, sotto forma di mobbing sul lavoro o altro. Se poi molti genitori o sedicenti esperti dell’infanzia vogliono tenere i pargoli sotto la campana di vetro fino ai vent’anni e oltre, buona fortuna.
Fare fumetti edulcorati e innocui per proteggere i bambini significa fare fumetti che i bambini non leggeranno. O trascureranno, più incuriositi da qualche lettura bizzarra o vagamente ‘proibita’ (come sostiene Frank Miller, i fumetti devono essere trasgressivi, altrimenti non sono fumetti).
Ora, sappiamo che il mondo Disney ha dei confini (piuttosto sfumati, a dire la verità) oltre ai quali non si va, ma secondo me un pizzico di pepe, un colpetto per sbilanciare il lettore ce lo si può – e ce lo si dovrebbe – permettere ogni tanto.”
Dalle tue storie traspare un grande amore per Romano Scarpa e Floyd Gottfredson. Qual è il tuo rapporto con le loro storie? Hai altre fonti di ispirazione a livello fumettistico?
“Floyd Gottfredson lo scoprii da bambino (molti anni dopo venni a sapere che le storie non le scriveva lui). Negli anni Settanta, la Mondadori omaggiava gli abbonati con volumi-strenna, su cui lessi e rilessi storie favolose (‘Topolino contro Macchia Nera’, ‘Topolino e il Mostro Bianco’, tutto il ciclo di Eta Beta).
Mi accorsi già allora della differenza di tono tra queste e le storie pubblicate in quegli anni su ‘Topolino’. Le storie di Gottfredson erano storie più adulte, complesse, ricche di sfumature spesso inquietanti. Era come se, dopo anni di brodino (che pure mi piaceva), mi avessero dato una fetta di torta. La stessa cosa accadde con l’Oscar Mondadori ‘Vita e dollari di Paperon de’ Paperoni’, una raccolta di sette favolose storie di Barks e la prefazione di Dino Buzzati.
Tornando a Gottfredson, sottolineo che lessi e studiai la maggioranza delle storie di Gottfredson quando già collaboravo per Disney, quindi da adulto: ‘Topolino contro Topolino‘, ‘Topolino e la banda della morte‘, ‘Topolino e la cassetta elettronica‘, ‘Topolino e l’orfanello riformato‘. Tutte storie meravigliose, e la mia preferenza andava a quelle degli anni Cinquanta, percorse da una vena paranoica. Questo per dire che, per quanto riguarda queste storie, per me non vale l’effetto nostalgia: queste storie sono grandi storie, punto.
Per quanto riguarda Romano Scarpa, lo ritengo il grande maestro italiano – per quanto riguarda i soli disegni – nel periodo fine anni Sessanta-inizio Settanta, dove i suoi personaggi raggiungono la massima maturità espressiva: basta vedere le sfumature di recitazione di Gambadilegno in ‘Pippo e i parastinchi di Olympia‘.
Il lavoro di Scarpa riflette perfettamente la mia idea di fumetto: una buona storia, un’eccellente sceneggiatura e disegni misurati e al servizio della storia, con recitazione dei personaggi ricca di sfumature psicologiche, un’impaginazione estremamente chiara e leggibile. Non me ne vogliano i virtuosi della matita, ma i superdisegni con vertiginosi cambi di inquadrature e prospettive ed effetti di luce piacciono a chi disegna (o agli amanti del bel disegno). Il lettore medio vuole leggere una storia avvincente e ben raccontata (vedi il successo – meritato – di Casty).
Non leggo moltissimi fumetti, e non c’è un gran osmosi tra quello che faccio e i fumetti non Disney. Extra Disney… poco fumetto Bonelli. Ho seguito per un certo periodo Dylan Dog, qualcosa di Martin Mystère, anche se mi piacciono alcuni disegnatori: Stano, un certo periodo di Dall’Agnol, Mari. Ho invece un’adorazione assoluta per Pratt, Battaglia, Moebius, Toppi, Toth, Abuli/Bernet, Breccia padre.
Ho letto con interesse Watchmen, From Hell di Moore. Su un gradino più basso, mi piacciono Mignola, Eisner, Spiegelman. Non un granché Frank Miller, anche se mi piace il montaggio moderno di ‘Dark Knight’. Asterios Polyp di Mazzucchelli è molto interessante. Mi diverte Rat-Man, Ortolani ha un ottimo ritmo narrativo ed è abile nell’innervare le storie con gags riprese e sviluppate più volte nel corso del racconto.”
Sei un autore “ibrido”: spessissimo autore completo, talvolta solo disegnatore, raramente anche solo sceneggiatore. Cosa ti piace di più fare e perché? Quando hai una sceneggiatura pronta, cosa ti spinge a farla disegnare a un collega anziché tenerla per te?
“In genere preferisco disegnare le storie io. Il motivo è che le storie che realizzo hanno una lunghissima gestazione. Il mio metodo di lavoro è di approfittare di ‘finestre’ creative che si aprono in momenti particolari della giornata, quando la mente è sgombra da pensieri. Può trattarsi di un’associazione di idee guardando un film o un discorso sentito al bar che mi colpisce, una situazione strana. In quei momenti è come se si aprisse un rubinetto e le idee cominciano a fluire: io cerco di trascrivere tutto quello che riesco a immaginare su quello spunto, fino a che la spinta creativa non si esaurisce.
Ho anche numerosi raccoglitori in cui raccolgo schizzi miei o illustrazioni, anche pescate nel web. A quel punto, mi fermo e lascio riposare l’idea. Ho accumulato così centinaia di idee sparse, che periodicamente passo in rivista correggendo e rimodellando. È un processo che può durare anni: penso alla storia muta ‘Tutti al mare!‘, partita in un certo modo, poi mi sono arenato, fino a che un giorno ho catturato l’idea per un ‘finale’ spiazzante.
Quindi, ogni storia ha una gestazione piuttosto lunga, in cui ‘visualizzo’ mentalmente intere sequenze, faccio schizzi preparatori e altro. Ne consegue una visione molto precisa della regia dei personaggi, delle inquadrature, degli effetti che voglio ottenere. Per cui mi riesce difficile ‘abbandonare’ la mia creatura a un altro artista, che può essere (e spesso è) superiore per abilità grafica ma che potrebbe ‘tradire’ la mia visione. Tanto per dirne una: molti anni fa un ottimo disegnatore (non più nel giro da molto tempo) mi rivelò come non sopportasse lo strumento dello storyboard, perché voleva immaginare lui le sequenze. Vedeva nello storyboard un’ingerenza ‘inquinante’ la sua creatività.
È una posizione che rispetto, ma che mi trova in disaccordo. Lo storyboard può essere – se fatto come si deve – un’arma formidabile per trasmettere con efficacia il senso e il feeling della storia. Va da sé che, se io realizzassi uno storyboard fatto in quel modo perché una data sequenza di suspense ha la massima efficacia in quel modo, e poi il disegnatore la cambia solo per una sua questione di principio…
Il discorso cadrebbe qualora una mia sceneggiatura andasse in mano a un disegnatore con il quale sento grande affinità di gusti. Naturalmente il primo nome che mi viene in mente è Casty. Ma anche Mastantuono, Freccero, Intini. A parte questi nomi, come immaginerete, c’è un grandissimo disegnatore in forza alla Disney, di solito ‘obiettivo nel mirino’ di tutti gli sceneggiatori.”
La full-immersion culturale. Il rituale scaramantico. L’apparenza che inganna. Hai spesso fatto satira sull’arte contemporanea e sulla cultura alternativa (filosofie new age, diete rivoluzionarie…) o “alta” (mostre, spettacoli teatrali, percorsi museali…). Qual è la tua opinione sull’arte e la cultura di oggi?
“La satira sul mondo dell’arte contemporanea mi riesce bene, penso. Ho visitato diversi musei in giro per l’Europa e a New York, in particolare il Reina Sofia a Madrid mi ha colpito per l’assurdità di certe ‘opere’ esposte. Ho il sospetto che nascondano furberie concordate da galleristi in combutta con certi critici. Ho letto di recente un saggio, molto ben scritto e a tratti esilarante, di un noto critico il quale perorava la causa dell’arte contemporanea – sotto la quale continuo a essere convinto si nascondano spesso provocazioni create ad arte.
Ad ‘arte’, per modo di dire. Tipo il cavallo sotto formaldeide di Damien Hirst, che non vorrei in casa, neppure in foto. Personalmente, apprezzo ed ho molta più considerazione per un illustratore/artigiano che non per una buona fetta dell’arte contemporanea, che sospetto nasconda solo fuffa. Tanto per dirne una, i bravissimi illustratori delle Fiabe Sonore della Fratelli Fabbri. Lì sì che non puoi imbrogliare: devi essere bravo, e basta. Un episodio buffo accaduto alla Fondazione Joan Mirò di Barcellona (non vorrei sbagliare, mi pare sia accaduto lì) parlava di un’ ‘opera’ composta da vecchi ombrelli annodati. Un operaio che lavorava al museo li scambiò per spazzatura e li gettò via.”
Recentemente, il mondo della musica si è unito sotto il movimento #iolavoroconlamusica per sottolineare che anche l’arte è un lavoro, e che va tutelato soprattutto in tempo di pandemia da Coronavirus. Dal mondo del fumetto, invece, non è arrivato alcun segnale. Come mai? C’è poca unità tra i fumettisti?
“La risposta (ovvia) è che il lavoro di musicista o attore di teatro è imprescindibile dalla presenza del pubblico. Il lavoro di scrittore o di autore di fumetti non lo è. È un’attività molto individuale, fatta di concentrazione e solitudine. A dire il vero, l’epidemia non ha cambiato granché nella mia vita (a parte la mascherina e le file ai supermercati per la spesa). Noto però che su Facebook gli artisti Bonelli hanno fatto brevi video proprio durante il lockdown, parlando del loro lavoro.”
Intervista a cura di Angelo Andrea Vegliante e Mattia Del Core
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