Era il luglio del 1993
Avevo poco meno di dieci anni, e come premio per una pagella finale densa di ottimi voti, fui mandato a trascorrere l’estate a casa di mia nonna, in un paesino di quaranta anime nel cuore dell’Appennino aquilano. Era la posta in palio accordata con mia madre ad ogni settembre, che grazie ad un percorso scolastico di grande impegno, ad ogni giugno riuscivo sempre a conquistare.
Come si potrà facilmente immaginare, in paese non vi erano esercizi commerciali, se non un bar, che durante gli orari dei pasti diventava una piccola tavola calda per i turisti o gli avventori della zona, e la sera prendeva le sembianze di un’osteria, con le carte che frusciavano sui tavoli, scartate dagli anziani del posto che si giocavano un fiaschetto di vino.
Ero un bambino che veniva dalla città, ma della metropoli, e più precisamente della Capitale, non sentivo affatto nostalgia.
In paese non c’era nulla, ma per me c’era tutto, e al bisogno, con mia nonna, eravamo soliti prendere la bicicletta e percorrere i due chilometri che ci separavano dal paese più vicino, magari per andare a fare un po’ di spesa.
Nel paese vicino c’erano poco meno di quattrocento persone, e proprio sulla piazza principale, alla destra della facciata della chiesa, c’era un piccolo negozio di generi vari, di quelli che entri per comprare un filone di pane e due etti di prosciutto, ed esci con due borse piene di acquisti.
La signora, sorridente e gentile come erano le anziane di una volta, vendeva anche i giornali, e alla mia prima spesa dell’estate, le chiedevo di mettermi da parte una copia di Topolino, non appena fosse uscita, con la promessa di andarla a ritirare quanto prima.
Si trattava di un’abitudine che avevo preso già da un paio d’anni, perché seppur non mi interessasse nulla di quanto lasciavo ogni giugno in città prima di salire in montagna, a Topolino non sapevo, e non volevo, rinunciare.
Era il mio passatempo durante le prime ore del pomeriggio, quando, per combattere il caldo estivo, mi rifugiavo all’ombra di una tettoia nell’orto di mia nonna, e viaggiavo con la fantasia leggendo le storie dei miei personaggi preferiti.
Quell’estate di ventisei anni fa, però, la ricordo con grande affetto: il primo numero di Topolino che comprai dalla signora sorridente e gentile del negozio in piazza, fu il 1957, ovvero quello che diede inizio alla collezione della 313 di Paperino, della 113 di Topolino, della macchinina di Pluto e di quella di Paperina, che riempirono di gioia ed euforia le mie pedalate verso il paese vicino.
Ma quanto venne anticipato già dal numero 1959, sconvolse definitivamente la mia estate: l’uscita del Topowalkie, infatti, fu qualcosa di davvero rivoluzionario. E non tanto per la struttura a puntate dell’uscita di quel fantastico walkie talkie, che ti imponeva di attendere la settimana successiva per avere il pezzo seguente, ma perché nella mia mente di bambino rappresentava il primo grande contatto con la tecnologia.
Infatti, già nel corso dell’estate precedente raccolsi con amore le quattro uscite che componevano il Topojolly, senza però desiderare più di tanto il momento di sfoggiarlo tra i miei compagni di scuola, perché quello avrebbe significato la fine dell’estate, delle vacanze, della montagna, e delle lettura all’ombra di una tettoia nell’orto di mia nonna.
Il Topowalkie, invece, rappresentava il gioco applicato alle vacanze, l’attesa legata a doppio filo al divertimento, a quella irrefrenabile voglia di un’estate che non volevo terminasse mai.
E dev’esser stato così non solo per me, ma anche per l’altro milione centomila duecentoottantaquattro bambini che quell’estate corsero in edicola per accaparrarsi le cinque uscite con in allegato i pezzi del Topowalkie, facendo registrare il record assoluto di vendite per il numero 1964, ad oggi ancora il Topolino più venduto di sempre.
Un pezzo di storia, della mia storia, con la quale giocavo tra le querce dell’Appennino insieme agli altri, pochi, bambini del paese, e nel quale ho cantato, qualche migliaio di volte, ad un ipotetico interlocutore, le canzoni degli 883, che fecero da colonna sonora a quell’estate.
Un’estate lontana ventisei anni, ma vicina e nitida nei miei ricordi.
Un’estate nella quale tante volte ho passato la comunicazione, ma che nel mio cuore non ho mai chiuso.
Mauro Giorgini